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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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mercoledì 30 novembre 2011

INCIVILTÀ TECNOLOGICA




di Gioacchino de Candia



Il 27 ottobre, in zona Ponte Milvio in quel di Roma, si è consumata una delle “tragedie” consumistiche della nostra epoca: l’apertura della nuova sede di Trony, catena commerciale nota per la vendita di prodotti tecnologici ed elettrodomestici in generale.

L’apertura di un nuovo centro commerciale non è certo una tragedia in sé: tutt’altro, ma ciò che ne è conseguito ha davvero lasciato allibiti non solo stampa e “addetti ai lavori”, ma anche lo stesso Comune, nella persona del Sindaco Gianni Alemanno.

I fatti sono questi: per il giorno 27 Trony aveva annunciato l’apertura della sua nuova sede in zona Ponte Milvio e per l’occasione (come spesso accade in circostanze simili) aveva proposto la vendita di una serie di prodotti a prezzo “stracciato”; tra i più noti: iPhone 4 a 399 Euro e TV lcd da 32 pollici a meno di 100 Euro.

La cosa ha ovviamente ingolosito tanti potenziali acquirenti, che il giorno stesso hanno letteralmente affollato l’ingresso del negozio provocando una fila a dir poco chilometrica e vari problemi di ingorgo al traffico veicolare nella zona. Le persone in coda sono state stimate in circa 8.000 unità, mentre sono scoppiati anche tafferugli tra gli astanti, con la conseguenza di alcuni feriti tra la folla.

Immediata la critica più che stizzita del Sindaco di Roma, che pur difendendo il diritto di Trony a lavorare sul territorio, ha comunque chiesto le scuse ufficiali ed anche il risarcimento degli eventuali relativi danni provocati all’Urbe da parte dell’azienda medesima.

La replica con annesse scuse da parte del direttore di Trony sono prontamente arrivate, ma di eventuali risarcimenti danni non se ne avverte ancora l’ “odore”.

Eppure la XX Circoscrizione, alla quale appartiene la zona di Ponte Milvio, si era prontamente attrezzata per disporre nuovi parcheggi, come richiesto da Trony stessa. Il punto, come ha sottolineato Alemanno, è che l’azienda non ha comunicato né al Campidoglio né alla XX Circoscrizione l’effettivo impatto della campagna promozionale straordinaria, che invece è puntualmente avvenuta il 27 ottobre, limitandosi alla distribuzione ed affissione dei soliti volantini e manifesti pubblicitari, che vengono preparati per occasioni simili.

In questo caso, sembra evidente che le “colpe” non vanno ricercate nella solita disorganizzazione pubblico-amministrativa. Allora, dove?

Per capire bene la questione dobbiamo fare un passo indietro di una buona decina di anni, quando in questo paese è stata promulgata un Legge, che disciplinava il nuovo assetto della distribuzione commerciale, secondo le varie metrature degli esercizi, dal “vicinato” fino alla “grande distribuzione, e secondo la dimensione abitativa dei comuni. La Legge in questione (Decreto Bersani 144/98) rimandava successivamente a Leggi e relativi Regolamenti regionali, che dovevano essere all’uopo attivati, per disciplinare regione per regione e comune per comune la materia, in base alle singole articolazioni e peculiarità territoriali (locali).

Il risultato, sul mercato, è stata la progressiva mortificazione dell’esercizio di vicinato (il negozio sotto casa della nonna) a vantaggio della grande distribuzione, soprattutto dei grandi centri commerciali, che proprio sul finire degli anni novanta del secolo scorso hanno cominciato a proliferare prima nelle grandi città, per poi “invadere” le varie province.

Il modello di tali strutture è quello tipico americano, in cui non solo si trovano i vari negozi con le relative offerte commerciali, ma anche bar, pizzerie, tavole calde, ristoranti e tutto ciò che serve per costruire un nuovo spazio di aggregazione e, soprattutto, di “incentivo all’acquisto”.

Una piccola città nella città dove l’acquirente, con la relativa famigliola, può sentirsi come a casa propria e trascorrere tranquillamente una giornata o quantomeno un pomeriggio.

Vari sociologi (o sedicenti tali) hanno definito questi spazi “non-luoghi”, ossia tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. In effetti, nei centri commerciali raramente si intrecciano relazioni personali, sicuramente non fanno parte della storia del luogo nel quale sono ubicati (almeno per il momento); riguardo l’identitarietà, forse non ve ne è per l’avventore-acquirente, ma per il negozio si.

I centri commerciali così costituiti non sono altro che una delle avanguardie del capitalismo rampante ed abbordante, che tenta tramite le lusinghe pubblicitarie e commerciali di modificare gusti, tendenze e relativi acquisti delle persone, che si trovano così travolti da una serie di eventi che, alla fine, non possono controllare, ma solo subire.

Ovviamente, si può scegliere di non frequentare questi luoghi (o di frequentarli solo lo stretto tempo necessario all’acquisto, di cui si ha effettivamente bisogno) ma tantissima gente si riversa in questi luoghi non-luoghi e se ne immerge totalmente. Non sarà la maggioranza della popolazione locale, ma certamente sono tanti e, quando si muovono in blocco possono provocare tanti piccoli e grandi disagi al territorio medesimo (il caso romano ne è un lampante esempio).

Un tempo, le guerre di conquista venivano combattute a suon di picche e bastoni, poi di archi, frecce e spade, per passare a proiettili e cannoni, fino ai missili “intelligenti”. Oggi le guerre di “conquista” si basano su una serie di “armi” decisamente più intelligenti e che non lasciano morti e feriti (perlomeno non a migliaia) sul campo, ma che lasciano inalterata la numerosità della popolazione, di cui hanno bisogno per lucrare dai relativi acquisti/vendite, ma che modificano anche profondamente il territorio, fino a quando lo stesso territorio finisce per essere un “non-luogo”.

L’andare delle cose e la fortissima americanizzazione che questo paese sta realizzando da diversi anni a questa parte è la diretta conseguenza della fenomenologia di guerriglia-shopping che si è manifestata, anche con violenza fisica oltre che verbale, a Ponte Milvio.

Si tratta di copioni già scritti e che puntualmente si verificano quando chi promuove tali vendite straordinarie (ed anche molto appetibili, per chi è interessato) guarda più all’incasso che all’effettiva conseguenza di tali azioni. Negli Stati Uniti, in occasione dell’avvicinarsi delle festività natalizie, sono moltissimi i centri commerciali che promuovono tali vendite, tant’è che spesso gli avventori, per accaparrarsi i prodotti in offerta e sempre limitati, passano la notte nel sacco a pelo ai bordi dell’ingresso; sovente, scoppiano tafferugli e si contano danni a persone, oltre che a cose: in alcuni casi le serrande dei negozi sono state letteralmente sfondate dalla folla allo scopo di essere i primi ad entrare per arraffare i prodotti in promozione.

Natale è nuovamente alle porte… Per inciso, l’incasso di Trony nella sola giornata del 27 ottobre è stato di circa 2,5 milioni di Euro.

PER UN RINNOVAMENTO DEL PARTITO SOCIALISTA


di Antonio Gramsci
L'Ordine Nuovo, 8 Maggio 1920


1) La fisionomia della lotta delle classi è in Italia caratterizzata nel momento attuale dal fatto che gli operai industriali e agricoli sono incoercibilmente determinati, su tutto il territorio nazionale, a porre in modo esplicito e violento la questione della proprietà sui mezzi di produzione. L'imperversare delle crisi nazionali e internazionali che annientano progressivamente il valore della moneta dimostra che il capitale è stremato; l'ordine attuale di produzione e di distribuzione non riesce più a soddisfare neppure le elementari esigenze della vita umana e sussiste solo perché ferocemente difeso dalla forza armata dello Stato borghese; tutti i movimenti del popolo lavoratore italiano tendono irresistibilmente ad attuare una gigantesca rivoluzione economica, che introduca nuovi modi di produzione, un nuovo ordine nel processo produttivo e distributivo, che dia alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione, strappandolo dalle mani dei capitalisti e dei terrieri.


2) Gli industriali e i terrieri hanno realizzato il massimo concentramento della disciplina e della potenza di classe: una parola d'ordine lanciata dalla Confederazione Generale dell'Industria italiana trova immediata attuazione in ogni singola fabbrica. Lo Stato borghese ha creato un corpo armato mercenario predisposto a funzionare da strumento esecutivo della volontà di questa nuova organizzazione della classe proprietaria che tende, attraverso la serrata applicata su vasta scala e il terrorismo, a restaurare il suo potere sui mezzi di produzione, costringendo gli operai e i contadini a lasciarsi espropriare di una moltiplicata quantità di lavoro non pagato. La serrata ultima negli stabilimenti metallurgici torinesi è stato un episodio di questa volontà degli industriali di mettere il tallone sulla nuca della classe operaia: gli industriali hanno approfittato della mancanza di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria nelle forze operaie italiane per tentare di spezzare la compagine del proletariato torinese e annientare nella coscienza degli operai il prestigio e l'autorità delle istituzioni di fabbrica (Consigli e commissari di reparto) che avevano iniziato la lotta per il controllo operaio. Il prolungarsi degli scioperi agricoli nel Novarese e in Lomellina dimostra come i proprietari terrieri siano disposti ad annientare la produzione per ridurre alla disperazione e alla fame il proletariato agricolo e soggiogarlo implacabilmente alle più dure e umilianti condizioni di lavoro e di esistenza.


3) La fase attuale della lotta di classe in Italia è la fase che precede: o la conquista del potere politico da parte del proletariato rivoluzionario per il passaggio a nuovi modi di produzione e di distribuzione che permettano una ripresa della produttività; o una tremenda reazione da parte della classe proprietaria e della casta governativa. Nessuna violenza sarà trascurata per soggiogare il proletariato industriale e agricolo a un lavoro servile: si cercherà di spezzare inesorabilmente gli organismi di lotta politica della classe operaia (Partito socialista) e di incorporare gli organismi di resistenza economica (i sindacati e le cooperative) negli ingranaggi dello Stato borghese.


4) Le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nella della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo, e di non comprendere nulla della missione che incombe agli organismi di lotta del proletariato rivoluzionario. Il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai una opinione sua da esprimere, che sia in dipendenza delle tesi rivoluzionarie del marxismo e della Internazionale comunista, non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria. Il Partito socialista, come organizzazione politica della parte d'avanguardia della classe operaia, dovrebbe sviluppare un'azione d'insieme atta a porre tutta la classe operaia in grado di vincere la rivoluzione e di vincere in modo duraturo. Il Partito socialista, essendo costituito da quella parte di classe proletaria che non si è lasciata avvilire e prostrare dall'oppressione fisica e spirituale del sistema capitalistico, ma è riuscita a salvare la propria autonomia e lo spirito di iniziativa cosciente e disciplinata, dovrebbe incarnare la vigile coscienza rivoluzionaria di tutta la classe sfruttata. Il suo compito è quello di accentrare in sé l'attenzione di tutta la massa, di ottenere che le sue direttive diventino le direttive di tutta la massa, di conquistare la fiducia permanente di tutta la massa in modo di diventarne la guida e la testa pensante. Perciò è necessario che il Partito viva sempre immerso nella realtà effettiva della lotta di classe combattuta dal proletariato industriale e agricolo, che ne sappia comprendere le diverse fasi, i diversi episodi, le molteplici manifestazioni, per trarre l'unità dalla diversità molteplice, per essere in grado di dare una direttiva reale all'insieme dei movimenti e infondere la persuasione nelle folle che un ordine è imminente nello spaventoso attuale disordine, un ordine che, sistemandosi, rigenererà la società degli uomini e renderà lo strumento di lavoro idoneo a soddisfare le esigenze della vita elementare e del progresso civile. Il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese, che si preoccupa solo delle superficiali affermazioni politiche della casta governativa; esso non ha acquistato una sua figura autonoma di partito caratteristico del proletariato rivoluzionario e solo del proletariato rivoluzionario.


5) Dopo il Congresso di Bologna gli organismi centrali del Partito avrebbero immediatamente dovuto iniziare a svolgere fino in fondo una energica azione per rendere omogenea e coesa la compagine rivoluzionaria del Partito, per dargli la fisionomia specifica e distinti di Partito comunista aderente alla III Internazionale. La polemica coi riformisti e cogli opportunisti non fu neppure iniziata; né la direzione del Partito né l' "Avanti!" contrapposero una propria concezione rivoluzionaria alla propaganda incessante che i riformisti e gli opportunisti andavano svolgendo in Parlamento e negli organismi sindacali. Nulla si fece da parte degli organi centrali del Partito per dare alle masse una educazione politica in senso comunista; per indurre le masse a eliminare i riformisti e gli opportunisti dalla direzione delle istituzioni sindacali e cooperative, per dare alle singole sezioni e ai gruppi di compagni più attivi un indirizzo e una tattica unificati. Così è avvenuto che mentre la maggioranza rivoluzionaria del Partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il loro prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali. La direzione ha permesso loro di concentrarsi e di votare risoluzioni contraddittorie con i principi e la tattica della III Internazionale: la direzione del Partito è stata assente sistematicamente dalla vita e dall'attività delle sezioni, degli organismi, dei singoli compagni. La confusione che esisteva nel Partito prima del Congresso di Bologna e che poteva spiegarsi col regime di guerra, non è sparita, ma si è anzi accresciuta in modo spaventoso; è naturale che in tali condizioni il Partito sia scaduto nella fiducia delle masse e che in molti luoghi le tendenze anarchiche abbiano tentato di prendere il sopravvento. Il Partito politico della classe operaia è giustificato solo in quanto, accentrando e coordinando fortemente l'azione proletaria, contrappone un potere rivoluzionario di fatto al potere legale dello Stato borghese e ne limita la libertà di iniziativa e di manovra: se il Partito non realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso le tendenze anarchiche che appunto aspramente e incessantemente criticano l'accentramento e il funzionarismo dei partiti politici.


6) Il Partito è stato assente dal movimento internazionale. La lotta di classe va assumendo in tutti i paesi del mondo forme gigantesche; i proletari sono spinti da per tutto a rinnovare i metodi di lotta, e spesso, come in Germania dopo il colpo di forza militarista, a insorgere con le armi in pugno. Il Partito non si cura di spiegare al popolo lavoratore italiano questi avvenimenti, di giustificarli alla luce della concezione della Internazionale comunista, non si cura di svolgere tutta un'azione educativa rivolta a rendere consapevole il popolo lavoratore italiano della verità che la rivoluzione proletaria è un fenomeno mondiale e che ogni singolo avvenimento deve essere considerato e giudicato in un quadro mondiale. La III Internazionale si è riunita già due volte nell'Europa occidentale, nel dicembre 1919 in una città tedesca, nel febbraio 1920 ad Amsterdam: il Partito italiano non era rappresentato in nessuna delle due riunioni: i militanti del Partito non sono stati neppure informati dagli organismi centrali delle discussioni avvenute e delle deliberazioni prese nelle due conferenze. Nel campo della III Internazionale fervono le polemiche sulla dottrina e sulla tattica della Internazionale comunista: esse (come in Germania) hanno condotto persino a scissioni interne. Il Partito italiano è completamente tagliato fuori da questo rigoglioso dibattito ideale in cui si temperano le coscienze rivoluzionarie e si costruisce l'unità spirituale e d'azione dei proletari di tutti i paesi. L'organo centrale del Partito non ha corrispondenti propri né in Francia, né in Inghilterra, né in Germania e neppure in Isvizzera: strana condizione per il giornale del Partito socialista che in Italia rappresenta gli interessi del proletariato internazionale e strana condizione fatta alla classe operaia italiana che deve informarsi attraverso le notizie delle agenzie e dei giornali borghesi, monche e tendenziose. L' "Avanti!", come organo del Partito, dovrebbe essere organo della III Internazionale: nell' "Avanti!" dovrebbero trovare posto tutte le notizie, le polemiche, le trattazioni di problemi proletari che interessano la III Internazionale; nell' "Avanti!" dovrebbe essere condotta, con spirito unitario, una polemica incessante contro tutte le deviazioni e i compromessi opportunistici: invece l' "Avanti!" mette in valore manifestazioni del pensiero opportunista, come il recente discorso parlamentare dell'on. Treves, che era intessuto su una concezione dei rapporti internazionali piccolo-borghese e svolgeva una teoria controrivoluzionaria e disfattista delle energie proletarie. Questa assenza, negli organi centrali, di ogni preoccupazione di informare il proletariato sugli avvenimenti e sulle discussioni teoriche che si svolgono in seno alla III Internazionale si può osservare anche nell'attività della Libreria Editrice. La Libreria continua a pubblicare opuscoli senza importanza o scritti per diffondere concezioni e opinioni proprie della II Internazionale, mentre trascura le pubblicazioni della III Internazionale. Scritti di compagni russi, indispensabili per comprendere la rivoluzione bolscevica, sono stati tradotti in Svizzera, In Inghilterra, in Germania e sono stati ignorati in Italia: valga per tutti il volume di Lenin Stato e Rivoluzione; gli opuscoli tradotti sono poi tradotti pessimamente, spesso incomprensibili per le storture grammaticali e di senso comune.


7) Dall'analisi precedente risulta quale sia l'opera di rinnovamento e di organizzazione che noi riteniamo indispensabile venga attuata nella compagine del Partito. Il Partito deve acquistare una sua figura precisa e distinta; da partito parlamentare piccolo-borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società comunista attraverso lo Stato operaio, un partito omogeneo, coeso, con una sua propria dottrina, una sua tattica, una sua disciplina rigida e implacabile. I non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito e la direzione, liberata dalla preoccupazione di conservare l'unità e l'equilibrio tra le diverse tendenze e tra i diversi leaders, deve rivolgere tutta la sua energia per organizzare le forze operaie sul piede di guerra. Ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentato in manifesti circolari della direzione per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie. La direzione, mantenendosi sempre a contatto con le sezioni, deve diventare il centro motore dell'azione proletaria in tutte le sue applicazioni. La sezione deve promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti che diffondano incessantemente in seno alle masse le concezioni e la tattica del Partito, che organizzino la creazione dei Consigli di fabbrica per l'esercizio del controllo sulla produzione industriale e agricola, che svolgano la propaganda necessaria per conquistare in modo organico i sindacati, le Camere del Lavoro e la Confederazione Generale del Lavoro, per diventare gli elementi di fiducia che la massa delegherà per la formazione dei Soviet politici e per l'esercizio della dittatura proletaria. L'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato, che attraverso i suoi nuclei di fabbrica, di sindacato, di cooperativa coordini e accentri nel suo comitato esecutivo centrale tutta l'azione rivoluzionaria del proletariato, è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet; nell'assenza di una tale condizione ogni proposta di esperimento deve essere rigettata come assurda e utile solo ai diffamatori dell'idea soviettista. Allo stesso modo deve essere rigettata la proposta del parlamentino socialista, che diventerebbe rapidamente uno strumento in mano alla maggioranza riformista e opportunista del gruppo parlamentare per diffondere utopie democratiche e progetti controrivoluzionari.


8) La direzione deve immediatamente studiare, compilare e diffondere un programma di governo rivoluzionario del Partito socialista, nel quale siano prospettate le soluzioni reali che il proletariato, divenuto classe dominante, darà a tutti i problemi essenziali - economici, politici, religiosi, scolastici ecc. - che assillano i diversi strati della popolazione lavoratrice italiana. Basandosi sulla concezione che il Partito fonda la sua potenza e la sua azione solo sulla classe degli operai industriali e agricola che non hanno nessuna proprietà privata e considera gli altri strati del popolo lavoratore come ausiliari della classe schiettamente proletaria, il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito, nel quale il proletariato industriale e agricolo sia invitato a prepararsi e ad armarsi e nel quale siano accennati gli elementi delle soluzioni comuniste per i problemi attuali: controllo proletario sulla produzione e sulla distribuzione, disarmo dei corpi armati mercenari, controllo dei municipi esercitato dalle organizzazioni operaie.


9) La sezione socialista torinese propone, sulla base di queste considerazioni, di promuovere un'intesa, coi gruppi di compagni che in tutte le sezioni vorranno costituirsi per discuterle e approvarle; intesa organizzata che prepari a breve scadenza un congresso dedicato a discutere i problemi di tattica e di organizzazione proletaria e nel frattempo controlli l'attività degli organismi esecutivi del Partito. 


lunedì 28 novembre 2011

FEDERICO CAFFÈ: LA COMPAGNIA BELLA DEL RIFORMISTA





di Lorenzo Mortara

L’AltraItalia, il programma della solita borghesia (piccola) che in tempi di crisi e di anarchia quasi assoluta è tutta un programma, si regala addirittura un intero numero di Micromega per dare importanza al suo radicale riformismo (sic!) che, diversamente, importanza non ne avrebbe alcuna. Saluta il programma, anche se nessuno ha potuto chiederglielo, Federico Caffè, l’economista scomparso nel 1987, che ne anticipa lo spirito col suo più noto articolo, La solitudine del riformista, pubblicato il 29 Gennaio 1982.
L’articolo trovò spazio tra le colonne del Pedifesto, il quotidiano sedicente comunista, ridotto oggi da far pietà, per l’indecente protesta contro il taglio all’aiuto finanziario, da sempre pietito allo Stato borghese, in nome del pluralismo e della libertà anche della sua stampa dal marxismo. Già allora i comunisti non sapevano fare i comunisti, e i riformisti, non sapendo fare niente, tanto meno stare al loro posto, tra i borghesi veri e propri, erano perfetti per infiocchettare con un po’ di buon senso, le pagine senza senso degli stalinisti.
Il riformista di trent’anni fa, si rifaceva a Keynes proprio come i comunisti di oggi, gli stessi stalinisti di sempre. In nome di Lord Keynes respingeva vaghe quanto immaginarie palingenesi. Infine si intristiva per l’accusa di tappabuchi del sistema, incapace di fuoriuscirne, sostenendone l’impossibilità per il suo realismo operante nella Storia, specialmente nei rivoli della sua retorica.
Come spesso succede coi riformisti, sembra sempre che ci siano tra noi e loro divergenze laddove in realtà non ci sono.
Il riformista crede che noi si preferisca l’utopico al realizzabile, il tutto al poco, il salto qualitativo al gradualismo quantitativo. In realtà noi si preferisce solo Marx a Keynes, perché il primo è vivo e vegeto e il secondo definitivamente morto.
Noi appoggeremo sempre tutte le riforme gradualistiche. Non avremo nulla in contrario con tutti i New Deal che assorbiranno sei dei dodici milioni di disoccupati. Noi però non spiegheremo sei milioni di buchi coperti con l’impossibilità di tappare gli altri sei, ma con la volontà precisa di lasciare aperta la voragine capitalistica. Differenza non da poco, che fa del riformista di oggi, il controriformista di domani, perché con il timore di avanzare troppo, la voragine capitalistica prima o poi si riprenderà anche i 6 milioni di disoccupati trasformati momentaneamente in occupati dalla riforma. È solo questione di tempo. Se il riformista non lo sa, è appunto perché il suo realismo non vede mai più in là del suo naso.
Il riformista crede di agire nella Storia, ma in realtà le va contro, perché lui ne accetta solo una parte, quella appunto gradualistica, ovvero quella che – di passata – è anche la meno importante e decisiva. Considera completamente irreali palingenesi che sono, gli piaccia o meno, avvenute. Né segue che l’unica cosa irreale è lui, perché la sua realtà è monca, falsificata dalle sue convinzioni che la troncano proprio sul più bello.
La realtà mostra che a piccoli mutamenti quantitativi, seguono, rari ma pur sempre ben visibili, salti qualitativi. Il riformista, convinto com’è che siano le idee a muovere la Storia, s’immagina che la Storia possa procedere all’infinito a passi graduali. Se non è abbastanza intelligente da capire d’essere solo il sottoprodotto della lotta di classe – e un riformista è sempre al di sotto di una tale intelligenza – s’incaponisce a volerla dirigere a tutti i costi lui. Ed è proprio qui che finisce la favola del riformista, quando davanti al salto qualitativo, oltre il quale non è più possibile riformismo alcuno, spaventato dalla Storia che tenta di sorpassarlo, il riformista comincia a far da freno, incanalando la riforma nel suo opposto: la controriforma. La direzione del moto di classe del proletariato, viene ora stoppata e respinta indietro dal moto di classe della borghesia. In quel momento il riformista, si mostra in tutta la sua impotenza e insignificanza. Infatti, il riformista viene a mancare nel momento del massimo bisogno. Più c’è bisogno di riforme, meno il riformista è in grado di farle per la fragilità del sistema. E siccome un solo graffio potrebbe distruggerlo, terrorizzato dal gran passo, finisce col tagliare i coglioni al proletariato. E mentre la Storia torna indietro, avendo perso la spinta che in qualche modo lo sosteneva, lui proclama una serie di riforme che la borghesia non si degnerà manco di prendere in considerazione. Quando i rapporti di forza muteranno un’altra volta a favore del proletariato, la Storia si ritroverà di nuovo tra le balle questo raffreddore che vuole soffiarla via e allontanarla coi suoi starnuti. Ma anche così, la Storia, nonostante i ritardi dovuti a questi ammalati di realismo, troverà il modo di deglutire per sempre tutto questo catarro.
Il balletto del riformismo va in scena da almeno un secolo. Gli ultimi esempi evidenti di questa commedia, li abbiamo visti in Spagna e in Grecia, paesi nei quali i due sedicenti governi riformisti di sinistra, paralizzati dalle esigenze del sistema, non sono stati capaci di far altro che uscire ignominiosamente di scena dopo anni passati a far niente, controriforme a parte. Alle ultime due nullità, scaraventate per sempre nella pattumiera della Storia, si aggiungerà presto il più pretenzioso degli ultimi bidoni d’immondizia: Obama. Emblematica, a questo proposito, la sua ultima proposta per il piano del lavoro, immediatamente bocciata al Senato. Era ovviamente scontato che finisse così, dopo le rovinose elezioni di midterm. Obama lo sapeva, ma 447 miliardi di piano per l’occupazione, anche se bocciati, sono comunque un’ottima pubblicità per le elezioni prossime venture. Sarà colpa dei repubblicani, nella prossima campagna elettorale, se il primo nero d’America non è riuscito a varare la riforma, non della sua complicità con loro nei primi due anni di mandato, gli unici in cui aveva qualche speranza di poterla varare.
Solo quando è sicuro della loro impraticabilità, il riformista si appresta a varare le riforme. Se il mare è calmo spera di farla franca lo stesso, magari con la pubblicità di qualche giornale sempre pronto ad affibbiargli qualche titolo onorifico che non significhi nulla ma che confonda le masse. Un riformista non ha fatto nulla, baloccandosi nelle realissime contraddizioni del sistema? Ecco un grande statista! Ma se il riformista ha la disgrazia di operare nei momenti di sconquasso come questo, la Storia non lo perdona e mostra tutta in un colpo e in maniera indecorosa, la sua nullità un attimo prima di deporlo per sempre nel dimenticatoio.
Fa eccezione, naturalmente, il riformismo italiano che non teme la Storia in quanto si riforma e si controriforma, si trasforma e si ritrasforma sempre un momento prima che questa cambi direzione. Il riformista italiano non viene buttato nella pattumiera della Storia perché ha già trasformato quella d’Italia nel suo immondezzaio. Qualunque sia la fogna preparata per lui dalla Storia, l’italico riformista ci vivrà sempre dentro come il topo nel formaggio. Il riformista italiano si ricicla continuamente. È bio-indegradabile. Per spazzare via il riformismo italiano, la Storia dovrà lasciare per un momento tutto il resto e concentrare tutti i suoi sforzi sul Belpaese. Altrimenti corriamo anche noi il rischio di diventare pessimisti. Perché alla rivoluzione non basterà un’armata rossa, avrà bisogno almeno di un’armata di inceneritori.
Fino a quando tutte le sue scorie non saranno disperse nell’aria, il riformista di tutte le latitudini resterà anche da solo, ma sempre al riparo, nel salotto buono della borghesia. Per noi è già fin troppo accompagnato. C’è molta più solitudine in una piazza gremita di proletari lasciati soli contro il potere. La solitudine del riformista è troppo gaudente per i nostri gusti. Manca di sofferenza. Non vale, insomma, un bottone. È sterile come la felicità. È la felicità non viene mai da sola, anche se si ammanta di solitudine.

Lorenzo Mortara
Delegato Fiom-Cgil
Stazione dei Celti, Novembre 2011

domenica 27 novembre 2011

Il lupo capitalista dietro l'agnello riformista: gli indicatori del benessere sociale e la nuova economia del benessere, di Riccardo Achilli




Premessa


La nuova frontiera della statistica economica sembra sempre più spostarsi sull'elaborazione di innumerevoli, e fantasiosi, indici del benessere sociale, che dovrebbero, nella mente di chi li elabora, andare a sostituire le misure della crescita basate sul PIL, in nome di un concetto di “sviluppo” più ampio, che accanto (o addirittura in sostituzione) della crescita della ricchezza produttiva netta (che è poi essenzialmente la base della misura del PIL) tenga conto delle ricadute sociali, ambientali, culturali, di qualità della vita, ecc. del modello di sviluppo stesso.

Tali sforzi di costruire indici del benessere sono addirittura diventati una priorità europea, nel momento in cui Sarkozy, nel 2008, insediò una commissione per “la misurazione della performance economica e del progresso sociale”, composta dai tre più illustri economisti del benessere viventi, ovvero l'indiano Amartya Sen, il francese Jean Paul Fitoussi e l'americano Joseph Stiglitz (primo campanello di allarme per i marxisti e per la sinistra in generale: tale commissione viene proposta da un leader di destra, da una specie di napoleoncino da strapazzo, certamente privo di qualsiasi aspirazione progressista, come Sarkozy). Tale commissione, a fine 2008, ha elaborato un rapporto, acquisito dalla Commissione Europea e da Eurostat come base teorica per la revisione del concetto stesso di contabilità nazionale, la cui finalità è quella di:


1) identificare i limiti del PIL come misura della performance economica e del progresso sociale, ivi compresi i classici problemi di misurazione statistica del PIL, anche nell'ambito ristretto della sua finalità di mera misurazione della variazione della produzione al netto delle materie prime, dei semilavorati e dei servizi alla produzione interamente consumati nel processo produttivo (quindi come indicatore di misura delle variazioni della ricchezza produttiva netta), già ampiamente individuati dalla statistica economica classica;

2) proporre indicatori di progresso sociale più rilevanti, che includano informazioni aggiuntive (essenzialmente le esternalità socio-economiche) rispetto al mero PIL;

3) valutare la fattibilità, stante l'informazione statistica di base esistente e di quella acquisibile, degli indicatori di benessere, alternativi al PIL, proposti.


La base statistica elaborata in detto rapporto rappresenta l'avvio di importanti revisioni nei sistemi nazionali di contabilità dei Paesi membri dell'Unione Europea, di cui gli enti statistici di Gran Bretagna ed Italia si sono fatti pionieri, avviando un percorso “dal basso” mirato ad identificare gli elementi costitutivi di base di un indice del benessere sociale che sostituisca il PIL.

In questo articolo, cercherò di dimostrare la natura non neutrale politicamente, e profondamente manipolativa, in una fase di crisi del capitalismo, in cui il problema di fondo è proprio l'arresto del processo di accumulazione e di crescita, di tali esercizi statistici. Mi sforzerò di mettere in guardia il lettore da simili esercitazioni, apparentemente “progressiste”, perché pretendono di tenere esplicitamente conto di misurazioni dei fallimenti di mercato, nella misura in cui esse, in realtà, servono da base per camuffare il fallimento economico del capitalismo (quindi il suo fallimento come sistema nel suo insieme), creando un sistema “consolatorio” rispetto al progressivo impoverimento economico di ampie fasce di popolazione, con una finalità evidentemente reazionaria. Tuttavia, per poter dare una dimostrazione di ciò, dovrò necessariamente fornire alcuni elementi di base di tipo teorico e statistico, scusandomi anticipatamente con il lettore troppo impaziente di leggere le conclusioni politiche del presente articolo.




La teoria: l'evoluzione moderna dell'economia del benessere


La teoria del benessere tradizionale, elaborata dagli economisti liberisti, si fonda essenzialmente sulla legge di Pareto, come perfezionata, fino al suo ultimo stadio, da Kaldor e Hicks. Il principio paretiano di ottimizzazione del benessere sociale, essenzialmente, si realizza quando l'allocazione delle risorse all'interno di un sistema economico (ovvero quando l'allocazione dei fattori produttivi fra tutte le possibili utilizzazioni produttive degli stessi) è tale che non è possibile migliorare la condizione di un soggetto senza peggiorare la condizione di un altro soggetto.

La “condizione” soggettiva viene misurata in termini del concetto microeconomico di utilità, ovvero di capacità, da parte di un determinato paniere di beni e servizi acquistabile con un dato reddito, di soddisfare la domanda individuale del soggetto. In Pareto, è possibile, per ciascun soggetto, ordinare in una scala crescente di utilità (senza però poter giungere a quantificare tali utilità) tutte le possibili scelte di consumo disponibili stante un certo livello di reddito individuale. Pertanto, in una condizione di ottimo paretiano, non è possibile aumentare l'utilità di un individuo senza peggiorarne quella di un altro. Tale situazione si colloca in uno scenario teorico di massimizzazione nell'efficienza allocativa dei fattori produttivi, laddove cioè non è possibile “spingere”, nemmeno di una quantità addizionale marginale, il potenziale di crescita (e quindi di ulteriore generazione di redditi) conseguito mediante l'allocazione dei fattori realizzata. Per cui, non potendo incrementare ulteriormente produzione e redditi, non è possibile migliorare l'utilità di un individuo (nell'accezione utilitaristica, fornirgli una maggiore quantità di beni e servizi di consumo) senza togliere qualche bene o servizio di consumo ad un altro individuo.

Tale criterio verrà poi affinato da Kaldor e Hicks, al fine di tenere conto dei fallimenti di mercato. In tale versione, l'ottimo paretiano si consegue in una condizione in cui chi migliora la sua situazione (cioè incrementa la sua utilità totale) è in grado di generare un surplus di utilità sufficiente per compensare monetariamente quelli che vengono danneggiati dalle diseconomie esterne generate dal miglioramento dell'utilità del “vincente”. Ad esempio, si avrebbe un miglioramento paretiano nel caso in cui una industria inquinante generasse, grazie all'assenza di investimenti di protezione ambientale, un profitto tale da compensare monetariamente gli abitanti della regione colpiti da cancro al polmone causato dall'attività produttiva dell'impresa stessa, stimando un valore monetario della salute e della vita umana tale da rappresentare la base attuariale della compensazione monetaria!

Tralascerò gli evidenti riflessi etici di una simile impostazione, per concentrarmi su quelli di teoria economica. Nell'assetto paretiano, è evidente che l'ottimo viene conseguito sotto le assunzioni teoriche del modello di concorrenza perfetta (una dimostrazione matematica della coincidenza fra ottimo paretiano e modello walrasiano di concorrenza perfetta viene fatta da Arrow e Debreu). Quindi l'ottimo paretiano è legato all'ideale di realizzazione perfetta del capitalismo concorrenziale, ed è un concetto di ottimizzazione puramente produttivistico e consumistico, legato com'è al conseguimento di assetti produttivi tali da massimizzare il volume di beni e servizi consumati. In tal senso, è ovvio che il benessere sociale possa essere interamente riassunto e misurato dal PIL, che costituisce l'indicatore di sintesi di una visione puramente produttivistica delle dinamiche economiche.

Tale modello non funziona, per diversi motivi. In primo luogo, non tutto è monetizzabile. Come quantificare monetariamente il senso di alienazione dell'operaio? Inoltre, è chiaro che, proprio il modello di concorrenza perfetta, che è un modello del tutto teorico, impedisce che nel concreto si realizzi un ottimo paretiano. Le condizioni di asimmetria informativa rendono impossibile programmare l'allocazione teoricamente ottimale; la tendenza del tasso di profitto medio a diminuire, tipica del capitalismo nel lungo periodo, neutralizza la possibilità di generare surplus tali da compensare monetariamente chi è danneggiato. Infine, il modello di efficienza paretiana non ci dice niente circa il modo in cui la produzione, ed il reddito, vengono distribuiti. In linea teorica, e dipendendo dal punto di partenza dal quale si avviano dei miglioramenti di benessere, è possibile avere un punto di ottimo paretiano in una condizione in cui un solo individuo possiede il 100% della ricchezza nazionale, ed il resto della collettività non ha niente. Si ha quindi la conclusione, apparentemente paradossale, ma perfettamente coerente con un modello di benessere sociale puramente basato sui volumi totali di produzione e consumo di una società, in cui il massimo del benessere si può conseguire anche in corrispondenza con il massimo di iniquità distributiva!

In modo formale, Tibor Scitovski dimostra la non transitività del criterio di ottimo paretiano sotto le assunzioni di Hicks e Kaldor, nel senso che il criterio paretiano si trova in una condizione di indeterminatezza nel dirci quale sia in assoluto la situazione di benessere ottimale, qualora la situazione di benessere A sia preferibile alla B, e quest'ultima alla C, ma a sua volta la C sia migliore della A. Tale affermazione, che può sembrare astratta, in realtà ha implicazioni pratiche enormi, nella misura in cui ci dice che in numerose situazioni il criterio paretiano non può essere utilizzato come criterio-guida per determinare le scelte di politica pubblica, ed i relativi obiettivi. Amarthya Sen, poi, assesta il colpo mortale al criterio paretiano. Egli ha dimostrato formalmente che, in uno Stato che voglia far rispettare contemporaneamente efficienza paretiana e libertà (quest'ultima intesa come la presenza di uno spazio in cui le sole preferenze dell'individuo determinano la scelta di consumo), possono crearsi delle situazioni in cui al più un individuo ha garanzia dei suoi diritti. Egli dimostra dunque matematicamente la possibile inesistenza dell'ottimo paretiano nel liberismo, smentendo quindi Arrow e Debreu, e smontando anche l'ultimo degli assiomi che teneva insieme la teoria paretiana, ovvero che, in una condizione teorica di liberismo perfetto e di perfetta concorrenza, fosse possibile raggiungere l'ottimo paretiano.

La fine poco gloriosa della teoria del benessere tradizionale apre la strada ai due filoni moderni dell'economia del benessere, che possono così sintetizzarsi.

Da un lato, emerge l'approccio keynesiano, che si mantiene nell'ambito dei meccanismi puramente economici, affiancando alle misure quantitative della crescita, ovvero il PIL, anche quelle redistributive, per cui il PIL viene “corretto” soltanto con indicatori, come l'indice del Gini, che misurano il grado di equità nella distribuzione sociale del PIL stesso. Tali teorie si fondano su politiche, dette di “stop and go”, che cercano di contemperare stimoli alla crescita con disincentivi alla stessa quando questa si surriscalda, avendo sempre a mente parametri di equità distributiva, sia nelle fasi di “go” (perché tale fase deve essere alimentata da stimoli alla domanda aggregata, possibilmente concentrati sulle fasce sociali a più basso reddito, che hanno la più alta propensione marginale al consumo) che in quelle di “stop” (essenzialmente implementate per evitare che un surriscaldamento inflazionistico danneggi il tenore di vita reale dei ceti meno abbienti, tipicamente titolari di redditi fissi, quindi esposti all'aumento dei prezzi. Altri strumenti keynesiani, adottati per proteggere i ceti meno abbienti dal surriscaldamento inflazionistico, oltre alle fasi di “stop”, sono la scala mobile ed il recupero del fiscal drag). Modelli empirici, stimati econometricamente, come la relazione di Phillips, vengono utilizzati per calibrare al meglio la tempistica delle fasi di stop e di go.

Con il sostanziale fallimento del welfare keynesiano, provocato dalla globalizzazione e dall'emergere di Paesi a elevata competitività di costo, nasce l'approccio attualmente dominante, denominato “nuova economia del benessere”, di cui l'alfiere è Sen, che esce dal campo meramente economicistico, e fonda l'idea del benessere sociale sui concetti senniani di “capacitazione” e “funzionamento”. In sintesi, Sen elabora la teoria dei funzionamenti, che si pone come alternativa alle più consuete concezioni del welfarismo basate sul criterio delle utilità sopra descritto. La visione dei funzionamenti prescinde da una misurazione dell'utilità meramente legata alla quantità e varietà di beni consumati, basandosi sulla realizzazione di certe dimensioni oggettive, che sono dei risultati acquisiti dall'individuo su piani come quello della salute, della nutrizione, della longevità, dell'istruzione. Leggiamo in Lo sviluppo è libertà: " I livelli di reddito della popolazione sono importanti, perché ogni livello coincide con una certa possibilità di acquistare beni e servizi e di godere del tenore di vita corrispondente. Tuttavia accade spesso che il livello di reddito non sia un indicatore adeguato di aspetti importanti come la libertà di vivere a lungo, la capacità di sottrarsi a malattie evitabili, la possibilità di trovare un impiego decente o di vivere in una comunità pacifica”. Sen sottolinea la sterilità, sotto il profilo teorico, della prospettiva di discorso utilitarista affermando la necessità di mediare tra quest' ultima e una dottrina fondata sui diritti. Per l'utilitarismo ciò che conta sono gli stati di cose, la sua è un' impostazione aggregativa, non è sensibile a come le utilità sono di fatto distribuite, ma si concentra esclusivamente sull'utilità complessiva, tralasciando l'importanza dell'individuo.

Sen è d'accordo con John Rawls, il quale richiede l'uguaglianza dei diritti e doveri fondamentali e sostiene in contrapposizione con l'utilitarismo che le ineguaglianze economiche e sociali sono ammesse, cioè sono giuste, ma non se avvantaggiano pochi, molti o anche i più tralasciando coloro che si trovano nelle situazioni più precarie. Il fatto che esistano degli svantaggiati è, per Rawls, un dato di fatto, ma è necessario che le istituzioni usino dei criteri compensativi.

Il concetto di capacitazioni è strettamente legato al precedente concetto di funzionamenti. Le capacitazioni sono le abilità che vengono messe a disposizione dell'individuo da un corretto funzionamento, grazie alla fruizione di beni pubblici quali la sanità, l'istruzione, la possibilità di fruire di cibo, acqua e alloggio adeguati, ecc. Tali abilità mettono in condizione l'individuo, se meritevole, di sviluppare pienamente le sue potenzialità ed i suoi talenti, nell'ambito del quadro sociale esistente.

In sostanza, quindi, la nuova economia del benessere di Sen pone l'accento sulla sovrastruttura politica e sociale, abbandonando una logica puramente incentrata sui rapporti economici di produzione: si tende ad una modificazione della sovrastruttura socio-politica, che produca opportunità di mobilità sociale ascendente anche per gli appartenenti ai ceti economicamente sfavoriti, tramite l'erogazione di un livello paritario ed uniforme di beni pubblici “di base “ (sanità, istruzione, cibo ed acqua, alloggio, trasporti, accesso ad Internet) e la garanzia di libertà politiche e di democrazia liberale. Ovviamente, tale concetto di sviluppo, che abbraccia elementi di sovrastruttura, superando una logica meramente incentrata sulla crescita del reddito e la sua distribuzione, richiede indicatori di benessere che incorporino il PIL dentro sistemi di misurazione più generali, includenti anche aspetti sociali, politici, ambientali, educativi, ecc. In sostanza, la nuova economia del benessere di Sen esprime essenzialmente un riformismo possibile all'interno di un paradigma che resta quello del capitalismo a democrazia liberale, e che rimane sostanzialmente competitivo: il ruolo del policy maker è solo quello di fornire a tutti le “capacitazioni” di base, dopodiché la mobilità sociale rimane affidata alla competizione fra individui. L'approccio della nuova economia del benessere, incarnato da Sen, e dai suoi colleghi Fitoussi e Stiglitz, nominati da Sarkozy nella famosa commissione di cui alla premessa, rimane quindi sostanzialmente capitalistico e concorrenziale, e rinuncia all'idea fondamentale di azzerare le differenze e le disparità socio-economiche fra individui, ovvero alla logica marxista.




Gli indicatori del benessere






Ecco quindi che, in base all'evoluzione dell'economia del benessere sopra tratteggiata, si sviluppa parallelamente un lavoro statistico mirato ad elaborare indicatori del benessere sostitutivi, e più ampi, rispetto al PIL, che risente del declino della tradizionale ottica paretiana.

Nell'ambito dei tentativi keynesiani di costruzione di nuovi indici del benessere, Samuelson (1947) propone una funzione teorica di utilità aggregata, che sia una trasformata di funzioni di utilità individuali, nelle quali un campione statisticamente rappresentativo di individui, intervistato, doveva esprimere valori di utilità non soltanto rispetto alla quantità e qualità di beni e servizi associati ad ogni alternativa sociale, ma anche in merito al modo in cui questi beni e servizi venivano ottenuti e distribuiti. E' ovvio che il tentativo di Samuelson, nel più puro filone keynesiano, è quello di “correggere” misure di crescita (della produzione netta, ovvero il PIL, o del consumo) mediante parametri di tipo redistributivo.

Nell'ambito della nuova economia del benessere senniana, Nordhaus e Tobin (1972) fanno un primo tentativo di costruire un indicatore di misura del grado di sviluppo alternativo e più complesso rispetto al PIL pro capite, sostituendo quest’ultimo parametro con un indicatore dei consumi reali annuali delle famiglie, in grado di includere, sotto forma di costo-opportunità, anche beni pubblici quali la fruizione di determinate libertà politiche e sociali, ecc. Inoltre, venivano aggiunti ai consumi anche gli investimenti netti, tentando di contemperare la crescita dell’indicatore dei consumi con una stima del grado di riproducibilità delle risorse naturali ed ambientali, con ciò di fatto effettuando un tentativo di definire un indicatore di sviluppo ecocompatibile.

Daly e Cobb elaborarono l'“indice ISEW” (index of sustainable economic wealth), che rappresenta il primo tentativo di sistematizzare con completezza una misurazione di un concetto di sviluppo più ampio rispetto a quello delimitato dal PIL. Di fatto, partirono da un indice che misurasse i consumi delle famiglie, aggiustato per vari fattori, fra i quali la disuguaglianza nella distribuzione del reddito, al fine di incorporare una ipotesi di rendimento marginale decrescente del reddito in termini di crescita del benessere sociale complessivo, ed inserirono, fra i consumi, anche voci normalmente omesse nel sistema contabile, quali le spese pubbliche per istruzione e cultura, quelle per la salute, la dotazione di infrastrutture di trasporto, ecc. deducendo, al contempo, i costi derivanti da una serie di esternalità negative, quali gli oneri sostenuti dalla collettività a seguito di incidenti stradali, oppure quelli derivanti dall’inquinamento ambientale. Il risultato di tale esercizio, applicato agli Stati Uniti, fu che,fra 1950 e 1990, i consumi delle famiglie, a prezzi 1972, crebbero di 928,3 miliardi di dollari, mentre, nel corrispondente periodo, l’ISEW crebbe di appena 438 miliardi di dollari, con un divario negativo fra i due indicatori di oltre 490 miliardi, dovuto alle esternalità negative prodotte sullo sviluppo dalla crescita economica del PIL (in termini di impatto ambientale) e dalla crescente privatizzazione/deregolamentazione del sistema di protezione sociale statunitense.

Un altro indicatore, più recente dell’ISEW, proposto originariamente dall’economista indiano Diwam, il GPI (genuine progress index), segue invece una metodologia di costruzione molto più simile a quella del PIL, correggendo detto parametro con una stima delle disparità nella distribuzione del reddito fra le varie classi sociali, ed aggiungendovi una stima del valore monetario del tempo passato in attività considerate socialmente meritorie e/o non contabilizzate tradizionalmente nel PIL, perché considerate fra i servizi non destinabili alla vendita. Vengono inoltre aggiunti i valori monetizzati dei servizi resi dai beni di consumo durevoli e dalle infrastrutture di trasporto. Vengono invece dedotte dal PIL alcune voci che costituiscono altrettante esternalità negative, quali le spese indotte dalla criminalità, dagli incidenti automobilistici e dall’inquinamento oppure il costo sociale dei divorzi e dalla perdita di tempo libero, o del pendolarismo casa-lavoro. Tale indicatore, partendo dal PIL, è con questi più facilmente confrontabile. Una stima riferita all’Italia mostra come il PIL in termini reali cresca molto più rapidamente, nel periodo 1960-1990, del corrispondente indice GPI, mostrando quindi l’impatto di fattori sociali, ambientali o culturali negativi che hanno inciso sul grado di sviluppo complessivo del nostro Paese, mantenendolo al di sotto della sua crescita economica.

L’elaborazione di tali indicatori ha dato la stura ad una congerie enorme di lavori empirici, che sono stati tutti quanti tesi a individuare indici sintetici che aggregassero i più disparati aspetti di carattere sociale, ambientale, culturale, ecc. che avessero, o si riteneva potessero avere, un impatto significativo sullo sviluppo. Per la loro rilevanza politica, vanno menzionati gli indici elaborati dall’ONU, e più precisamente l’HDI (human development index) e l’HPI (human poverty index). L’HDI si basa soltanto su tre dimensioni, misurate da indicatori elementari, che vengono successivamente aggregati nell’indice di sintesi:


1) il tenore di vita medio (quindi una misura del livello di crescita economica raggiunta), misurato tramite il PIL pro capite;

2) l’accesso alla conoscenza, misurato tramite il tasso di alfabetizzazione degli adulti e l’indice di iscrizione al sistema scolastico. Tali indicatori vengono, del tutto arbitrariamente, ponderati rispettivamente con pesi pari a 2/3 ed 1/3;

3) la qualità della vita, misurata esclusivamente facendo ricorso alla speranza di vita alla nascita.


L’indicatore HPI, dal canto suo, è una modificazione dell’HDI mirata a misurare il fenomeno della povertà, perché tiene conto di indicatori aggiuntivi rispetto all'HDI, come il tasso di disoccupazione di lunga durata oppure la percentuale di popolazione che vive al di sotto della linea di povertà, e ne esiste una versione atta a quantificare l’indigenza nei Paesi in via di sviluppo ed un’altra per i Paesi sviluppati.

Recentemente, l'ente statistico britannico e quello italiano hanno dato avvio alla procedura di stima di un indice del benessere nuovo, che dovrà sostituire il PIL, e le cui dimensioni elementari, che saranno la base per l'indice sintetico, in una ottica “presunta democratica”, vengono valutate dal basso, ovvero tramite la erogazione di un questionario ad un campione rappresentativo della popolazione.

In questo modo, si cerca di dare una parvenza di democrazia e condivisione dal basso all'indicatore stesso, poiché il questionario chiede, ai rispondenti, di esprimere valutazioni sull'importanza, in termini di qualità della vita e benessere complessivo, di 12 domini scelti a monte (ambiente, salute, benessere economico, istruzione e formazione, lavoro e conciliazione dei tempi di vita, relazioni sociali, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e patrimonio culturale, ricerca e innovazione, qualità dei servizi, politica e istituzioni). Sulla base delle risposte, si elaboreranno dei pesi, che serviranno come ponderazioni per il futuro indice del benessere che integrerà e sostituirà il PIL, nel senso che quanto maggiore sarà la frequenza di risposta ad uno dei domini, tanto maggiore sarà il peso attribuito a quel singolo dominio nel calcolo dell'indice sintetico.



Perché tali indici sono manipolativi e politicamente reazionari


E veniamo quindi al cuore politico di quest'analisi, ovvero alla natura non neutrale, rispetto alla politica, di tali esercizi statistici. Essi non sono neutrali politicamente, perché intanto derivano da una teoria del benessere, la nuova economia del benessere di Sen, Fitoussi e Stiglitz, che fa delle precise scelte di campo politico. Essa rimane pienamente nel campo del capitalismo. Accetta, anzi esalta e rafforza, il concetto di competizione fra individui e di scala gerarchica sociale. Si limita soltanto a chiedere che vi sia una “fair competition”, in cui gli individui vengono messi in condizioni di partenza uguali, in termini di “capacitazioni” di base. In questi termini, l'approccio di Sen e dei suoi colleghi altro non è che un riformismo, anche se in buona fede, in un quadro capitalista, e per utilizzare le categorie di Kautsky, corrisponderebbe ad un programma molto, ma molto minimalista.

Tra l'altro anche ingenuo: nonostante il suo premio Nobel, Sen dovrebbe essere molto sciocco a credere che il capitalismo possa realmente fornire a tutti, in condizioni di eguaglianza di accesso, beni pubblici come l'istruzione, l'acqua, la salute. Tali settori sono fonti di pingui business, ed alla lunga la loro gestione pubblica tende sempre, in un modo o in un altro, ad essere avvicinata a metodi gestionali privatistici. Non è per cattiveria, o perché ci sono dei farabutti al governo, è la natura stessa dell'accumulazione capitalistica che porta tale sistema all'esigenza di valorizzare, nella logica del profitto, qualsiasi campo dell'attività umana e qualsiasi risorsa della natura. Se non si esce dal capitalismo, invocare eguaglianza nell'accesso all'istruzione, al cibo, alla salute, all'acqua, è da ingenui. O, come temo sia nel caso di Sen, da furbacchioni che ingannano le opinioni pubbliche per conseguire celebrità e premi Nobel. Persino nella scuola pubblica, i figli delle classi dominanti hanno vantaggi di partenza incolmabili rispetto ai figli degli operai, attribuibili ai tanti benefit accessori che l'appartenenza al ceto dominante consente loro di fruire.

Gli indici del benessere “alternativi al PIL”, come l'HDI, l'HPI, il GPI, l'indice del benessere che sta iniziando ad elaborare l'ISTAT, sono soltanto misurazioni quantitative per orientare politiche economiche e sociali sotto l'ombra di un quadro teorico riformista minimalista, come quello sopra descritto, e quindi assumono un connotato obiettivamente politico, e avverso agli interessi di classe. Tali indici non sono neutrali per la loro natura: scegliere una o l'altra delle possibili dimensioni elementari alla base dell'indice sintetico conduce a risultati finali molto diversi fra loro, ed oggettivamente la scelta di un “set” di dimensioni di base è molto soggettiva, per non dire arbitraria. L'illusione democratica di costruzione di un sistema di ponderazione dal basso, proposta dall'ISTAT, è solo fumo negli occhi. Intanto, i 12 domini cui i rispondenti al questionario sono chiamati a fornire valutazioni sono stati scelti a monte, mentre non vi è, nel questionario, una domanda mirata a far emergere nuovi domini elementari, aggiuntivi ai 12, di iniziativa degli intervistati (ci si limita a chiedere agli intervistati se ritengano esaustivo l'elenco dei 12 domini, ma non si chiede quali potrebbero essere eventuali domini aggiuntivi, in caso di insoddisfazione). Il fatto che il questionario chieda l'importanza, in termini di benessere, del paesaggio e dei beni culturali, e non il grado di soddisfazione/alienazione sul posto di lavoro, o il peso di una società realmente equa in termini distributivi, è chiaramente frutto di una scelta politica. Elementi di benessere magari importanti per tantissime persone, ma pericolosi politicamente per il sistema, vengono volutamente omessi dal questionario. Mentre, come nel caso del questionario sottoposto ai cittadini dall'ente statistico britannico, si cade nel ridicolo, chiedendo quanto pesi sul benessere sociale la “soddisfazione rispetto al proprio coniuge”.

Ovviamente, il metodo di ponderazione e di aggregazione degli indicatori elementari per giungere all'indice sintetico (quindi la fase successiva a quella del questionario) è questione di stretta competenza dei tecnici dell'ISTAT, ma il fatto di utilizzare una media aritmetica, oppure una media geometrica, o il metodo di Wroclaw, o una tecnica di clusterizzazione o di aggregazione per componenti principali, influisce sul risultato finale. E trattandosi di questioni da addetti ai lavori, le eventuali prove fatte, con procedure statistiche diverse, per giungere al risultato “politicamente” meno pericoloso, saranno accuratamente tenute nascoste. Quindi un metodo “presunto democratico” di consultazione dal basso serve a poco, se non a fare una operazione di mera immagine.

Tali indici si prestano ad operazioni manipolative da parte delle classi dominanti: come il lupo che nasconde il suo grugno dietro la maschera dell'agnello, tali indici, elaborati dietro la maschera di guide per politiche di contrasto alla povertà o al disagio sociale, in realtà:


- sono profondamente diseducativi per il proletariato, perché lo portano a ragionare in termini di sovrastrutture politiche e sociali anziché, come sarebbe corretto per la formazione di una coscienza di classe adeguata alla lotta anticapitalista, a guardare ai rapporti sociali di produzione. Se non hai la sanità pubblica, l'istruzione pubblica, se muori in media dieci anni prima di un ricco, e per malattie curabili, se vivi in un ambiente inquinato e pestifero, il problema non è in tali elementi, o in una generica carenza di democrazia politica, o in una classe politica inadeguata. Il problema è che i rapporti sociali di produzione ti incatenano ad una condizione sociale miserabile. Il problema è nell'economia, non nella sovrastruttura, che si limita a riflettere i rapporti economici sottostanti. Ma gli indici del benessere alternativi al PIL tendono a dare una chiave di lettura dei fenomeni sociali che esula dall'economia, e che mette i piedi dentro la sovrastruttura. Molto diseducativo e molto fasullo;

- la tempistica e i protagonisti tradiscono la natura reazionaria di tali esercizi statistici. La Commissione Sen-Fitoussi-Stiglitz viene insediata da Sarkozy; un ex Ministro campione della conservazione come Tremonti annuncia in pompa magna l'avvio della procedura ISTAT per il calcolo dell'indice del benessere; l'HDI è calcolato da una istituzione mondiale al servizio dell'imperialismo, come l'ONU;

- ma ciò che è più importante è che questi indici vengono varati a partire dal 2008, anno-chiave perché è l'anno in cui la Commissione Sen-Fitoussi-Stiglitz consegna il suo rapporto, e la UE lo acquisisce, ma che è anche l'anno in cui si manifestano i primi effetti della crisi economica nel comparto reale dell'economia, e iniziano ad emergere i primi fenomeni di impoverimento di strati della società. Come non vedere un tentativo di comunicazione politica molto losco e disonesto, dietro tutto ciò? Un tentativo rivolto alla massa della popolazione europea che, sotto i colpi della crisi, si sta rapidamente impoverendo, e che in sostanza è il seguente: “è vero che il tuo reddito diminuisce, che sei più povero di tre o quattro anni fa, che forse a breve tu e la tua famiglia dovrete trasferirvi a vivere in una bidonville. Però l'aspetto economico non è l'unica componente del benessere; ti rimane sempre 'o sole, 'o mmare, 'o panorama, 'o mandulino, l'ammore. Anche in un capitalismo in crisi, anche in una disperata caduta libera del benessere economico materiale, si può continuare ad essere felici. Te lo dicono gli esperti della statistica, te lo dice il valore dell'indice del benessere, cui tu stesso, rispondendo al questionario, hai contribuito”. Davvero una miserabile operazione di comunicazione politica, davvero una miserabile e tragica farsa. Miserabile.


E Bob Kennedy, che pronunciò la famosa frase “il PIL misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere americani” si rivolta nella tomba, per essere utilizzato e citato ad ogni piè sospinto da questi miserabili. Varrebbe la pena di ricordare che pronunziò tale frase nel 1968, ovvero nel cuore della fase più impetuosa di crescita del capitalismo mondiale, e che quindi la sua frase era il riflesso di un illuminato senso di preoccupazione per le storture e le ingiustizie nascoste sotto tale impetuosa crescita. Era una critica al capitalismo, non un modo disperato per nascondere la crisi del capitalismo, come fanno invece i suoi miserabili glossatori odierni.


sabato 26 novembre 2011

La grande perversione



di Leonardo Boff
filosofo/teologo

Per risolvere la crisi economico-finanziaria della Grecia e dell'Italia è stato costituito, come preteso dalla Banca Centrale Europea, un governo composto esclusivamente di tecnici, senza la presenza di nessun politico. Insomma si è partiti dall'illusione che si tratti di un problema economico che deve essere risolto economicamente.


Chi si intende solo di economia va a finire che non si intende nemmeno di quella. La crisi non è dell'economia male gestita, ma crisi di etica e di umanità. Queste hanno a che vedere con la politica. Per questo la prima lezione di marxismo elementare è capire che l'economia non è una parte della matematica e della statistica ma un capitolo della politica. Gran parte dell'opera di Marx è dedicata alla decostruzione dell'economia politica del capitale. Quando in Inghilterra avvenne una crisi simile a quella attuale e fu messo in piedi un governo esclusivamente di tecnici, Marx fece con ironia e sfottò dure critiche perché ne prevedeva il fallimento totale come effettivamente avvenne. Non si può usare il veleno che ha creato la crisi come medicina per curare la crisi.
 
Hanno chiamato a dirigere i rispettivi governi della Grecia e dell'Italia persone che appartenevano agli alti gradi delle banche. Erano state le banche e le borse a provocare la crisi presente che quasi affondava l’intero sistema economico. Questi signori sono come i talebani fondamentalisti : in buona fede credono nei dogmi del libero mercato e nei giochi di Borsa. In quale luogo dell'universo si proclama l'ideale del «greed is good», in italiano «L’avidità è cosa buona»?

Come trasformare un vizio (e, diciamolo subito, un peccato) in virtù? Questa gente è installata a Wall Sreet o nella City di Londra. Non sono volpi che fanno la guardia alle galline, ma se le pappano. Con le loro manipolazioni hanno trasferito immense fortune nelle mani di pochi. E quando è scoppiata la crisi sono stati soccorsi con miliardi di dollari rubati ai lavoratori e ai pensionati.

Barack Obama si è dimostrato debole andando incontro a questi più che alla società civile. Con i soldi incassati hanno continuato a far baldoria, visto che la promessa regolamentazione dei mercati è rimasta lettera morta. Milioni di persone vivono nella disoccupazione e nel precariato, specialmente i giovani che stanno riempiendo le piazze, indignati, contro l'avidità, la disuguaglianza sociale e la crudeltà del capitale.

Gente che ha il cervello strutturato secondo il catechismo del pensiero unico neoliberale si mette a tirar fuori Grecia e Italia dal pantano? Quello che sta succedendo è il sacrificio di tutta una società sull'altare delle banche e del sistema finanziario.

Dato che la maggioranza degli economisti dello establishment non pensano (e nemmeno ne hanno bisogno) cerchiamo di capire la crisi alla luce di due pensatori che lo stesso anno, 1944, negli Stati Uniti ci hanno fornito una chiave chiarificatrice. Il primo era un filosofo e economista ungaro-canadese, Karl Polanyi con la sua classica opera La Grande Trasformazione. In che cosa consiste? Consiste nella dittatura dell'economia. Dopo la seconda guerra mondiale che ha dato una mano per superare la grande Depressione del 1929, il capitalismo dette un colpo da maestro: annullò la politica, mandò in esilio l'etica e impose la dittatura dell'economia. A partire da adesso non avremo, come sempre è avvenuto una società con mercato, ma una società di solo mercato. L'economia struttura tutto e trasforma tutto in merce sotto la regola di una crudele concorrenza e di una sfacciata cupidigia. Questa trasformazione ha dilacerato i lacci sociali e approfondito il fossato tra ricchi e poveri all'interno di ciascun paese e a livello internazionale.

L'altro nome è di un filosofo della scuola di Francoforte, esiliato negli Stati Uniti, Max Horkheimer, che ha scritto L’eclissi della ragione (trad. italiana Milano 1962), dove si danno le ragioni della Grande Trasformazione secondo Polanyi che consistono fondamentalmente in questo: la ragione non è più orientata alla ricerca della verità e al senso delle cose, ma è stata sequestrata dal processo produttivo e degradata a una funzione strumentale, "trasformata in un semplice meccanismo noiosissimo per registrare i fatti". Si duole che "giustizia, uguaglianza, felicità, tolleranza, attributi giudicati per secoli come inerenti alla ragione, abbiano perduto le loro radici intellettuali".

Quando la società eclissa la ragione, rimane cieca, perde il senso dello stare insieme e si vede affondata nel pantano degli interessi individuali o corporativi. È quanto abbiamo visto nell'attuale crisi. I premi Nobel dell'economia, ma umanisti, Paul Krugman e Joseph Stiglitz ripetutamente avevano scritto che i giocatori di Wall Street dovrebbero stare in galera come ladri e banditi.

Adesso, in Grecia e in Italia, la grande Trasformazione è stata ribattezzata con un altro nome: si chiama La Grande Perversione.

venerdì 25 novembre 2011

NON SOLO BALOTELLI


NON SOLO BALOTELLI
di Stefano Santarelli

La recente dichiarazione del Presidente Napolitano a favore della concessione della cittadinanza a coloro che sono nati nel nostro paese ripropone un problema ormai più che maturo per la società italiana.
Infatti la nostra legislazione è completamente arretrata rispetto a quella degli altri paesi occidentali non prevedendo lo ius soli vale a dire il diritto di essere cittadini perché si è nati in territorio italiano, ma concedendo invece la cittadinanza in base allo ius sanguinis in cui è sufficiente avere un solo bisnonno italico per poterla richiedere. Tra l’altro siamo l’unico paese occidentale (a parte Israele e l’Irlanda ed in misura minore la Spagna) a concedere la cittadinanza in base al diritto di sangue, un diritto che spazia addirittura su ben quattro generazioni.
Questa arretratezza della nostra legislazione sta provocando tutta una serie di contraddizioni prevedendo, per esempio, il diritto di voto da compiersi tramite posta, senza quindi neanche la fatica di recarsi in un ufficio consolare, a chi vive stabilmente in un paese estero per il solo fatto di essere magari il pronipote di nostri concittadini e che probabilmente non è mai stato in Italia e di cui forse non padroneggia la nostra lingua e senza ovviamente pagare le tasse. Ma negandolo invece a chi è nato nel nostro paese, vi ha fatto qui anche tutto il suo percorso scolastico e compie il suo dovere di contribuente.
Ed effettivamente ha ragione il Presidente della Repubblica a definire tale situazione “un’autentica follia” una questione peraltro già denunciata con forza da un politico indiscutibilmente di destra come Fini.
Non esiste in nessun paese occidentale una legislazione così penalizzante per i figli degli immigrati.
In Germania, i bambini nati dal 2000 in poi la acquisiscono se uno dei due genitori ha il permesso di soggiorno permanente da almeno tre anni ed è residente nel paese da almeno otto.
In Inghilterra la si ottiene se uno dei due genitori stranieri vi si è stabilito a tempo indeterminato.
In Francia, dove addirittura lo ius soli è previsto dal lontanissimo 1515, secondo la legge del 1998 occorrono almeno cinque anni di residenza dall'età di 11, anche discontinua, per ottenere la cittadinanza  automaticamente a 18 anni. Mentre il ragazzo o la ragazza nati in Francia possono ottenerla anche a 16 anni, se ne fanno esplicita richiesta. Di più: i loro genitori possono farla ottenere anche a 13 anni, previo consenso dell'interessato: in questo caso, il requisito dei cinque anni di residenza scatta dall'età di 8 anni.
Negli Usa invece chiunque vi nasca è automaticamente cittadino statunitense.
Invece da noi chi è nato in Italia da genitori stranieri può chiedere la cittadinanza italiana soltanto al compimento della maggiore età con la condizione che però abbia trascorso tutti i suoi 18 anni di vita in Italia. Un'interruzione anche modesta di questo periodo e voilà, con grande sadismo l'occasione sfuma. E, con altrettanto sadismo, l'occasione sfuma se il giovane compie i 19 anni senza fare domanda, magari per ignoranza delle norme.
E’ evidente che ci troviamo di fronte ad una legislazione profondamente discriminante con una impostazione indiscutibilmente razzista. Queste norme sono contenute nella legge 91 del 1992 votate all’unanimità da tutte le forze politiche comprese quelle della sinistra che su questo tema obiettivamente ha sempre dimostrato una profonda sordità ed indifferenza.
Infatti non si può non ricordare che nel 2° Governo Prodi (2006-2008), dove erano presenti pure i “forchettoni rossi” del PdCI, di Rifondazione e dei Verdi, non venne promulgata nessuna legge su questo tema impantandosi invece nelle legge sulle “coppie di fatto” di difficile attuazione in un  paese purtroppo profondamente cattolico come il nostro. Ora una legge di riforma della cittadinanza con la cosiddetta sinistra al governo aveva al contrario molte possibilità di essere varata visto anche l’enorme sensibilità che su questo tema ha il mondo cattolico.
La mancanza di una vera legge democratica sulla cittadinanza con lo scopo di favorire il pieno inserimento delle varie comunità presenti nel nostro paese provoca ormai profonde disuguaglianze. Infatti i figli degli immigrati sono un milione in tutto di cui quasi il 60% nati in Italia che studiano nelle nostre scuole, che parlano i nostri dialetti e che tifano le stesse squadre di calcio dei loro purissimi coetanei italiani.
Se mi si permette una nota strettamente personale non posso non essere disgustato dal fatto che mentre i miei tre figli che sono degli atleti agonisti hanno la possibilità di disputare e anche di vincere campionati italiani invece i loro coetanei di origine cinese o albanese pur essendo nati in Italia e magari non avendo mai visto il loro paese di origine al contrario non hanno tali possibilità. Così mentre i miei figli possono essere convocati in nazionale e quindi gareggiare nei vari tornei internazionali tutto questo è invece negato ad altri atlete/i altrettanto brave/i che hanno il solo handicap di non avere la cittadinanza italiana pur essendo un prodotto del nostre scuole sportive. E si deve tenere conto che la vita sportiva di un atleta al massimo può durare fino ai trent’anni dopo i quali è molto più difficile aspirare a vincere dei titoli i quali sono il sogno e lo scopo di qualsiasi atleta.
E’ rimasto purtroppo famoso il caso del calciatore Mario Balotelli il quale di origine ghanese è stato adottato in tenera età da una famiglia italiana. E pur essendo uno dei migliori giocatori della sua generazione e avendo alle spalle inoltre una grande società di calcio italiana non ha potuto disputare le Olimpiadi perché non aveva i 18 anni necessari per ottenere la nazionalità italiana. Ed è inutile sottolineare che la partecipazione alle Olimpiadi è veramente il sogno di qualsiasi atleta.
E’ questo un esempio di una discriminazione apparentemente minore, ma in realtà molto profonda e che lascia ferite che difficilmente possono essere rimarginate perché non si può parlare di integrazione senza concedere i nostri stessi diritti. E queste discriminazioni sportive colpiscono ovviamente i giovani immigrati che rappresentano una parte importante del futuro del nostro paese.
Sarebbe però ingenuo aspettare che questa annosa questione possa essere risolta da un Governo “tecnico” come quello di Monti, ma certamente dare la cittadinanza a chi è nato nel nostro paese oppure ha compiuto qui i propri studi è un tema all’ordine del giorno anche per la stessa borghesia italiana. Purtroppo se non sarà la sinistra a farsi carico di questa elementare battaglia di civiltà lo farà la destra con ben altra sensibilità.

mercoledì 23 novembre 2011

Il Socialismo europeo e globale di fronte a sfide epocali




di Carlo Felici



La sconfitta dei socialisti spagnoli è sicuramente un segnale d'allarme significativo non solo in merito alle prospettive del socialismo europeo, ma anche per quanto riguarda una seria politica di contrasto alle tendenze neoliberiste imperanti e al monetarismo sempre più spiccato della BCE.
E' altresì un indicatore importante della crisi del socialismo a livello globale?

Non sembrerebbe proprio. Innanzitutto rileviamo che, pur essendo battuto con un largo margine, il PSOE spagnolo conserva circa un 30% dei consensi e tale è sicuramente, rispetto ad altri partiti riformisti specialmente di area italiana, una percentuale ragguardevole. In secondo luogo c'è da notare che tale calo di consensi è più dovuto ad una disaffezione interna del suo elettorato che ad una valida alternativa presentata dal suo partito antagonista. E' stata quindi una sconfitta segnata duramente dal fattore “delusione”.

Il leader dei popolari spagnoli ha infatti conquistato una maggioranza assoluta praticamente senza promettere nulla, con un semplice, perdurante ma convincente.. “vedremo”, mentre i socialisti scontano due errori clamorosi.
Il primo è stato quello di non sapere interpretare le nuove sfide della crisi economica attuale, dimostrandosi incapaci di fornire risposte e tanto meno spiegazioni adeguate al loro elettorato. La conseguenza di ciò è stata che non si è avuta più la percezione di un distinguo netto tra politiche di sinistra e quelle di destra. Due casi sono emblematici in tal senso nelle politiche di Zapatero: il congelamento delle pensioni e una riforma dello Statuto dei lavoratori altamente penalizzante, imposta dall'alto senza cercare un minimo di concertazione o di consenso per una maggiore flessibilità tra i lavoratori. A ciò si aggiunga uno spiccato “laicismo” che è arrivato fin quasi allo scontro frontale con la Chiesa Cattolica, tradizionalmente ben radicata in Spagna.
Ma il fattore “disoccupazione” ha sicuramente pesato ancora di più, dato che la Spagna è oggi in Europa la nazione con un numero di disoccupati tra i più elevati.
In tale contesto, così come in altri, recuperare un terreno di dialogo con la protesta crescente degli “indignados” era non solo necessario ma sicuramente indispensabile per contenere almeno la perdita progressiva di consensi. Si è avuto invece l'esatto contrario: la crescita esponenziale della divaricazione tra governo socialista e movimenti di piazza.
Il movimento degli “indignati” ricorda un po' quelli anarchici della guerra civile spagnola: la FAI, il CNT, con le istanze libertarie, partecipative e la tendenza all'autogestione, ma senza quella organizzazione territoriale che si ebbe allora, anche se con una spiccata critica dell'apparato compromissorio verso il capitale e le politiche neoliberiste.
La protesta degli “indignados” però non è confluita in una vera e propria proposta alternativa di governo e di gestione dell'economia, e si è limitata alla “pars destruens”, esattamente come certi altri movimenti partecipativi che rimettono in primo piano la necessità dell'esercizio della democrazia diretta, senza però andare in profondità e spiegare come e quando potersi sottrarre validamente al tutoraggio dei grandi potentati economici oggi dominanti in Europa e nel mondo. L'invito al non voto è stato da parte di tali movimenti, sul cui coordinamento in rete alcuni sollevano vari dubbi in merito alla questione che siano in una certa qual misura eterodiretti più che spontanei, l'elemento infine più efficace e dirompente che ha causato la sonora sconfitta dei socialisti.
Dice tutto la seguente dichiarazione di uno di loro: Ignacio, un avvocato di 37 anni: «Io lo so che in fondo non è tutta colpa di Zapatero questo disastro. Il punto è che anche lui è un fantoccio nelle mani di qualcun altro: i banchieri, il Fondo monetario, la Commissione europea. Mi dispiace per come è andata con lui. Però è la dimostrazione che la politica in Spagna non ha bisogno di super eroi ma di gente semplice che si dedica alle piccole cose».
Il punto però è anche un altro: con la vittoria folgorante della destra, che fine farà questa “gente semplice che si dedica a piccole cose” non lo sappiamo di sicuro, ma una cosa certamente c'è da aspettarsela: che essa subisca, in Spagna come altrove, ulteriori e più numerosi tagli ai servizi e alle opportunità che già sono fortemente in crisi o scarseggiano fino a sparire del tutto
L'incapacità da parte degli “indignados” di compenetrarsi validamente nel processo di rinnovamento politico, civile e sociale, fino ad entrare con prepotenza negli apparati di partito della sinistra e l'incapacità di quest'ultima, e soprattutto del PSOE, di andare incontro validamente a tali istanze innovative, fino a rimettersi in discussione e trasformarsi ulteriormente dall'interno, ci danno la misura della sommatoria di errori che hanno portato ad una sonora sconfitta.
Sono gli stessi della sinistra riformista italiana nei confronti dei “grillini” che hanno contribuito alla “grulleria” della sconfitta in alcune nostre regioni.
Ma è davvero possibile reagire alle politiche neoliberiste, oppure la sconfitta dei socialisti spagnoli e di quelli greci dimostrano che, in realtà, nell'ambito degli schieramenti tradizionalmente maggioritari in Europa, ed in particolare in quelli socialisti, nulla di nuovo e di valido si può ormai proporre, nemmeno per arginare o ridurre l'impatto rovinoso dell'economia sulla politica?
Essenzialmente un dato emerge con sempre più chiarezza.
Nell' eurozona in cui manca una valida direzione fiscale e politica delle iniziative monetarie della BCE, ad essere penalizzati sempre di più appaiono i partiti di sinistra, in particolare quando agiscono senza un coordinamento continentale e, seguendo in buona parte interessi nazionali, in ordine sparso. In altri paesi come la Danimarca tuttora fuori dell'eurozona, le cose vanno diversamente. Evidentemente la sovranità monetaria rappresenta un vantaggio per chi propone un programma basato su investimenti pubblici, energie rinnovabili e fondi a educazione e sanità. E questo dovrebbe spingerci seriamente a riflettere sulla opportunità quanto meno di rinegoziare presenza e ruolo nell'ambito dell'eurozona, specialmente considerando come essa sia sempre più proiettata verso una centralità economica e finanziaria continentale e tedesca, e sempre meno orientata verso una valida sponda di cooperazione e di sviluppo nell'area mediterranea.
L'unico continente in cui il Socialismo, nei suoi vari e molteplici aspetti, vince democraticamente e liberamente appare oggi il Sudamerica, a causa di una concomitanza di fattori positivi:
La situazione dissestata delle economie dei Paesi dell’area, dovuta in gran parte alla crescita del debito estero e all’adozione del modello neoliberale ha determinato una forte reazione politica che ha visto coinvolti movimenti e personaggi che, dalla opposizione militare e guerrigliera, hanno saputo reinterpretare il loro ruolo e conquistare validamente quei consensi che hanno consentito loro di vincere le competizioni elettorali . Questo anche grazie alla revisione ideologica di alcuni partiti di sinistra, che ha permesso loro di abbracciare una fetta più ampia dell’elettorato. La capacità dei partiti e degli esponenti di sinistra di attrarre il voto di persone che non avevano mai votato prima è avvenuta soprattutto grazie al forte richiamo simbolico di alcuni candidati presidenziali.
Naturalmente tutto ciò è stato favorito dalla grande disponibilità di materie prime, dalla nazionalizzazione del loro sfruttamento e dall'incremento di rapporti con i paesi emergenti dell'area BRIC, in particolare con la Cina.
Nel Mediterraneo non è impossibile realizzare un ponte con il Sudamerica, e soprattutto con quei paesi emergenti che validamente hanno come comune obiettivo la riduzione della povertà e delle disuguaglianze. Programmi come Chile solidario, Fame zero in Brasile o le Misiones venezuelane si concentrano sulle fasce più deboli della popolazione, cui si propongono di offrire – tramite una serie di sussidi – una risposta alla fame, all’analfabetismo, all’emergenza medica. Lo Stato torna ad avere un ruolo centrale anche nell’economia. Ciò non sorprende, dato che anche un recente sondaggio di Latinobarometro ha confermato che i latinoamericani non hanno molta fiducia nell’economia di mercato e nelle imprese private. Tali politiche sarebbero cruciali per risollevare le disastrate condizioni di vari paesi della sponda sud del Mediterraneo, sottraendoli alla rovina del tribalismo, del fondamentalismo, del caudillismo e soprattutto del rischio di un caos sociale e politico permanente dovuto a conflitti endemici senza soluzione di continuità.
Un'area mediterranea di libero scambio, di progresso economico oltre che di sviluppo sociale, sottratta al nazionalismo e alla sudditanza neocoloniale, sarebbe davvero la carta vincente, soprattutto se coordinata con altre zone di analoga tendenza nei paesi emergenti e nel Sudamerica, contro quell'invadenza e quell'offensiva neoliberista e neocolonialista che, con guerre sempre più rovinose e perduranti, si sta imponendo dall'inizio del secolo, e che ha come principale scopo quello di impedire che il commercio delle materie prime, dal Mediterraneo al Medio Oriente, avvenga non più in dollari ma in euro.
Saddam e Gheddafi che commerciavano petrolio in cambio di euro sono stati eliminati soprattutto per questo motivo, e c'è seriamente da considerare che lo stesso rischio oggi corra l'Iran anche se, in tal caso, il conflitto assumerebbe le proporzioni di un vero e proprio Armagheddon.
La Spagna, però, in tale difficile contingenza globale, pur nella sua difficile situazione sociale ed economica, e nonostante la cocente sconfitta socialista, ha saputo dimostrare sicuramente uno slancio, una dignità e una credibilità in più di altri paesi “fratelli” della sponda mediterranea come la Grecia e l'Italia, e sebbene non stia sicuramente meglio di noi italiani, perché ha saputo eleggere un governo democraticamente, senza subire l'umiliazione “tutoriale” di governi “alieni e consociativi”, di fatto imposti dalla BCE.
L'Europa della BCE assomiglia molto a quella carolingia. “Spazza via” chi non si “converte” alla fede monetaristica ed inaugura un ferreo sistema di vassallaggio nei rapporti tra economia e politica, specialmente se trascura la questione cruciale degli eurobond. Ma, in tal senso, non ha futuro, perché sostanzialmente autoreferenziale ed “utile” soltanto per dirottare ricchezza dai ceti medi ai grandi “feudatari bancari”.
Un' Europa mediterranea fa paura a chi vuole usare il “mare nostrum” come “base militare” di controllo dello sfruttamento delle aree più ricche di quelle materie prime destinate, nei prossimi anni, a diminuire di quantità e ad aumentare di prezzo.
Il Socialismo europeo ha quindi di fronte a sé molti nemici, proprio per il rischio che esso potrebbe rappresentare se potesse realmente coordinarsi e sfuggire al dominio delle tendenze neoliberiste e neocolonialiste. Un rischio talmente grosso da costituire una svolta epocale.
Ovvio quindi che si cerchi di sabotarne l'affermazione seminando la proliferazione di innumerevoli suoi nemici interni che abbiano come loro missione principale proprio la necessità di dimostrarne l'inefficacia, l'inconsistenza, la sudditanza ed il suo squilibrio permanente tra utopismo e massimalismo ideologico a sfondo totalitario.
Nemici ovviamente perfettamente inseriti nella gerarchia di vassallaggio con cui il totalitarismo monetaristico neoliberista si sta affermando. Nemici a tal punto tale, da arrivare a definirlo un “errore antropologico”, cioè una sorta di contraddizione intrinseca della natura umana, capovolgendo e misconoscendo completamente il senso profondo delle radici umanistiche su cui il Socialismo stesso si fonda.
L'Ecosocialismo libertario invece resta tuttora la risposta migliore che si possa dare ad una crisi che rischia di aggredire la natura umana nei suoi più intimi valori fondativi: la libertà, la solidarietà e l'uguaglianza. In un mondo sempre più minacciato dai dissesti idrogeologici, strettamente legati a quelle politiche che considerano il territorio “merce” da utilizzare per fini di profitto, esso più che un'opzione politica, rappresenta la via della sopravvivenza della specie umana e la seria possibilità di arrivare indenni alla fine di questo secolo.
Attualmente abbiamo in Italia una pericolosa alleanza tra quei tecnocrati che lo considerano una “pericolosa illusione” ed i “gerarchi ecclesiali” che lo intendono come “errore antropologico”, suffragata dall'utilizzo di partiti contenitori guidati da vecchi leader “riciclatisi” proprio per sostenerne l'inconsistenza su scala globale.
Ricostruire una prospettiva di sviluppo socialista che sia concretamente libertaria e che contrasti in primo luogo quel totalitarismo dei mercati che non premia il merito, la competitività e l'innovazione, ma incentiva piuttosto l'oligopolio, l'obbedienza e la servitù monetaria, per promuovere una alternativa di emancipazione individuale e collettiva, è molto difficile, ma non impossibile e, allo stato attuale dei fatti, non può che risultare come un impegno rivoluzionario sia nei confronti di vecchi assunti dogmatici veteromarxisti sia contro le mistificazioni dell'apparato feudale neoliberista.
Solo alcuni grandi leader che sanno smascherare le trame lobbistiche che si celano dietro certi governi, e che allo stesso tempo viaggiano, conoscono ed apprezzano le grandi tendenze innovative che emergono prepotentemente nel mondo che non subisce passivamente un modello di globalizzazione a senso unico, possono concretamente restituire anche nel nostro Paese una possibilità di riscatto nella prospettiva del Socialismo del XXI secolo.
Non è difficile, basta solo che “diventino seriamente” ciò che “sono” e, come tali, si facciano autenticamente e coraggiosamente riconoscere in ambito europeo e globale.
C.F.

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