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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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venerdì 2 novembre 2012

Il brigantaggio post-unitario in Basilicata, di Riccardo Achilli




 Si è spenta da qualche mese l’eco dei festeggiamenti per il 150-mo anniversario dell’unità d’Italia, senza che i cervelli elettronici che governano il nostro Paese, o che la sua rachitica classe intellettuale, abbiano avuto il coraggio di promuovere un dibattito reale sul significato del Risorgimento, specie nel Mezzogiorno.
Nessuna riflessione critica ha ripreso l’irrisolta questione meridionale, riaffrontandola dalla sua genesi, coincidente con la conquista piemontese del Regno delle Due Sicilie. Ancora oggi il brigantaggio in vaste aree del Sud, che fu senz’altro alimentato dalle conseguenze della unificazione, viene trattato alla stregua di un fenomeno di devianza sociale legato a ferocia contadina e miseria, viene trascurato anche nell’insegnamento scolastico, nonostante il fatto che tale fase della nostra storia sia stata la prima vera guerra civile italiana, costata grosso modo 10.400 morti, 80.000 meridionali arrestati, 47.000 costretti all’esilio o all’emigrazione (stima fatta dal giornale francese “De Naples à Palerme”, del 1863). Di questa tragedia rimane poco, e vale la pena ricordarla, anche se motivi di spazio impongono di concentrarsi essenzialmente sulla vicenda lucana, anche perché la Basilicata fu forse la regione a più alta intensità del fenomeno.

Gli assetti sociali nel momento dell’esplosione del fenomeno del brigantaggio in Lucania

La situazione sociale del Regno delle Due Sicilie al momento dell’annessione piemontese era molto diversificata. Nelle aree urbane e costiere, infatti, si andavano affacciando i primi segnali di industrializzazione, e si formava, benché in forma ancora embrionale, un proletariato industriale moderno. Che però non si confrontava con una emergente borghesia nazionale, che faticava a svilupparsi: l’accumulazione originaria di capitale nelle prime grandi fabbriche (ferriere, cantieri navali, stabilimenti metalmeccanici e di armi, fabbriche di treni e materiale rotabile) fu infatti direttamente effettuato dallo Stato, ovvero dai Borboni, con il che si creava una tecnocrazia di direttori di fabbrica e tecnici di produzione, alle dipendenze dello Stato. Lo sviluppo del settore tessile attorno a Salerno ed a Bari, e della metallurgia a Bari, era opera di imprenditori svizzeri e tedeschi immigrati al Meridione, mentre la rilevante industria dello zolfo siciliano era interamente in mano a grandi compagnie britanniche, che investivano anche nella cantieristica navale nella zona di Napoli.
La borghesia autoctona era, tranne alcune eccezioni notevoli (ad esempio la compagnia di costruzioni ferroviarie Zino e Henry a Napoli, il polo tessile di Catania, in cui si distinguevano gli stabilimenti Fenizio, o il polo tessile presente nel casertano) ancora allo stadio del piccolo artigianato, e quindi debole politicamente, mentre ancora molto diffuso era il lavoro a cottimo e domestico, specie nella filatura, con livelli di accumulazione di capitale assolutamente irrisori ed assenza di rapporti conflittuali di classe (in quanto la manodopera era prevalentemente familiare).
Tra l’altro, l’accumulazione industriale era anche molto diseguale territorialmente: si concentrava infatti nel triangolo fra Salerno, Napoli e (in misura minore) Caserta: secondo la Banca d’Italia, nel 1871 l’indice di industrializzazione della provincia di Napoli, pari a 1,44, era addirittura più alto di quello della provincia di Torino (1,41) o di Venezia. Concentrazioni minori di attività manifatturiere si riscontravano nel barese e in alcune aree costiere siciliane.
L’entroterra, anche per una vera e propria impedenza geografica ed orografica alla localizzazione industriale, e per la debolezza della rete trasportistica del Regno (1.321 dei 1.848 comuni del Regno erano infatti del tutto isolati dal sistema viario, e quindi di fatto irraggiungibili) era invece ancora agricolo, molto povero, e non scevro da residui dannosi di feudalesimo (nonostante la sua abolizione formale avvenuta nel 1806, su pressione napoleonica). Il feudalesimo, infatti viene abolito, ma “gli ex feudatari ne conservano le rendite, le prestazioni ed i dritti territoriali”. Peraltro, i provvedimenti di riassegnazione dei terreni  espropriati al latifondo peggioravano molto spesso le condizioni della classe dei piccoli proprietari agricoli che si era formata progressivamente ai provvedimenti restrittivi su latifondo e feudalesimo, che se erano culminati con la legge del 1806, erano in realtà iniziati già dal 1792. Spesso infatti i piccoli proprietari dovevano indebitarsi con i latifondisti per comprare ulteriore terreno, poiché quello redistribuito era insufficiente, riproducendo quindi nuovi rapporti di servitù pseudo-feudale.  
La conseguenza di ciò era che, nelle grandi città del Sud, si affollava una classe di latifondisti ancora potenti, anche se privati dei loro diritti feudali formali, il cui unico obiettivo era quello di scimmiottare, nello stile di vita e nei gusti, le borghesie delle grandi capitali europee, ma che, a differenza delle borghesie europee vere, era caratterizzata da pigrizia, assoluta mancanza di spirito imprenditoriale, nessuna propensione a innescare processi di accumulazione capitalista originaria, e nemmeno ad investire nel miglioramento del loro latifondo, che, affidato a mezzadri e braccianti (spesso piccoli proprietari rovinati, o che, se anche conservavano la loro micro-impresa, dovevano comunque lavorare la terra del “padrone grosso” per sopravvivere) diveniva sempre meno produttivo e competitivo. Una classe di falsi borghesi parassiti che, oltre a non svolgere quel ruolo inizialmente rivoluzionario nel passaggio da feudalesimo e capitalismo che Marx assegna alla borghesia, spesso dilapidavano, con il loro stile di vita sontuoso e il vizio del gioco d’azzardo, il loro capitale fondiario, minando alla radice uno degli elementi fondamentali per l’avvio di un processo capitalistico.
Attorno a questi falsi borghesi, latifondisti di origine ma cittadini per elezione, si affollava infine la piccola borghesia delle arti, dei mestieri e dei commerci, la cui sopravvivenza dipendeva dai signori, e che assumeva quindi quel tratto servile con la grande borghesia, ostile in modo preconcetto al proletariato agricolo, liquidato sotto la categoria dei “cafoni”, che sarà poi ben delineato da Gramsci, come elemento che oggettivamente rendeva più difficile la saldatura fra proletariato urbano e contadino nel Sud, ma anche, in modo anche più virulento, da Salvemini (“andate un pomeriggio d'estate in uno di quei circoli di civili, in cui si raccoglie il fior fiore della poltroneria paesana; ascoltate per qualche ora conversare quella gente corpulenta, dagli occhi spenti, dalla voce fessa, mezzo sbracata, grossolana e volgare nelle parole e negli atti, badate alle scempiaggini, ai non sensi, alle irrealtà di cui sono infarciti i discorsi”).
La vita nelle campagne, dunque, ed in particolare nelle zone interne più aride e montuose, come appunto la Basilicata (al netto della pianura metapontina) per i piccoli contadini resi schiavi, per motivi economici, dei ricchi possidenti urbani, e per i semplici braccianti, era terribile. la Basilicata contava con un territorio molto ampio, di 10.675 Kmq (superiore a quello di una regione come l’Abruzzo o come il Lazio attuale) ed una popolazione estremamente rada, di soli 492.959 abitanti, quasi tutti residenti in aree rurali; le città più grandi non superavano i 20.000 abitanti, e vi si svolgevano attività molto povere di artigianato tradizionale. Di tutta la superficie della regione, circa 4.500 Kmq. erano coperte da zone boschive. Della restante parte del territorio, 1.000 kmq erano incoltivabili, e quindi destinati a pascolo, e solo le superfici residue erano adibite a coltura in grandissima parte seminativo-cerealicola e, per qualche zona ristretta, a ulivo e a vite. Si trattava quindi di un paesaggio spoglio con una economia in prevalenza ceralicolo-pastorale, di tipo estensivo e latifondistico, con una piccola percentuale di territorio alberato di coltura intensiva, in cui i contadini vivevano di un'agricoltura ancora primitiva e di mera sussistenza.
 Questo è il ritratto di una casa contadina lucana al momento dell’unità d’Italia: “nelle case affumicate dei contadini - dove non vi è un cantuccio asciutto, non una sedia, ma vecchie casse tarlate (veri cimiciai) le quali servono per tutti gli usi, da sgabelli, da tavole da pranzo, da armadi, ed in ultimo da casse funebri - c'è immancabilmente una pentola dove bolle la eterna minestra di legumi e la "brodaglia" chiesta in continuazione dai bambini. L'alimentazione ordinaria delle nostre classi agricole è costituita da pane di frumento, patate, legumi a preferenza fagioli. Il pane dei contadini poveri si compone di una minima quantità di grano mischiata ad orzo, granone, patate, veccia (impastato con acqua cattiva, senza sale, male cotto, frequente azimo, acido per troppo lievito o per fermentazione inopportuna, spesse volte mangiato stantio o ammuffito). Il pane bollito con un po' di sale, olio e qualche peperone secco è la loro minestra ordinaria, mentre le sostanze animali restano costantemente ai margini del regime dietetico. La "massa alimentare" consiste per lo più in frumento misto a cereali inferiori cui si accompagnano peperoni, legumi, patate, erbaggi conditi con olio e lardo. La carne di maiale e di pecora si mangia circa due o tre volte all’anno, rarissima quella bovina, limitata a solenni occasioni quella bianca (pollame e conigli) a parte la carne guasta di qualche bestia morta di malattia che si vende nel villaggio invece di sotterrarla, come vorrebbe l'igiene; diffusissima, poi, l'acqua-sale: vale a dire grosse fette di pane scuro e durissimo ammorbidito da acqua calda e insaporito da un pizzico di sale e da un filo d'olio, cui talvolta si accompagna il peperoncino” (Lenormant, Martinelli, Lacava, 1892, 1885).
In un simile assetto sociale, quindi, la tradizionale narrazione dell’origine del brigantaggio, legata cioè alla reazione nei confronti dello Stato unitario, è ovviamente vera e contiene elementi reali. In cambio di una mancata riforma agraria, infatti, lo Stato borbonico aveva concesso ai contadini delle aree più interne e povere il beneficio di una tassazione relativamente moderata, e la possibilità di sfuggire al servizio militare. Il neo Stato piemontese si affrettò ad eliminare tali vantaggi, senza peraltro compiere alcun progresso in direzione della redistribuzione delle terre e di un sistema economico e sociale più equo nelle campagne meridionali. Ansiosi di guadagnarsi il consenso dei ceti latifondisti, spesso molto rapidamente passati dalla parte garibaldina già durante la spedizione dei Mille, i sabaudi non avevano affatto proceduto alla promessa di redistribuire le terre, ed anzi avevano di fatto impedito la soluzione del problema storico delle terre demaniali, non redistribuite ai contadini.  
Da questo punto di vista la Lucania fu esemplare: la spedizione dei Mille fu in realtà sostenuta, in Basilicata, da ampie fasce della popolazione, speranzose in un miglioramento della loro disastrosa condizione sociale. Già ad agosto 1860, quando ancora Garibaldi non aveva superato lo stretto di Messina, la Basilicata fu liberata dal suo popolo dal dominio borbonico. Alla guida dei moti antiborbonici si pose la borghesia locale, presto affiancata dai possidenti, lesti a saltare sul carro del vincitore. A settembre 1860, Garibaldi affidò ai rappresentanti di questa borghesia (Albini, Lacava, Mignogna, Racioppi) il Governo prodittatoriale, con pieni poteri, per la Basilicata. Le promesse di redistribuzione delle terre ai contadini vennero immediatamente sepolte, e le terre demaniali, uno sfogo essenziale per i braccianti più poveri, vennero rapidamente privatizzate e cedute ai latifondisti, che in questo modo videro aumentare il loro potere economico. Mentre di contro venne immediatamente imposto l’obbligo di servizio militare: molti renitenti alla leva vennero fucilati sul posto e senza neanche aver la possibilità di giustificarsi, episodi del genere accaddero, ad esempio, a Castelsaraceno, Carbone e Latronico.
Inoltre venne immediatamente aumentata la pressione fiscale sugli strati più poveri della popolazione, da uno Stato sabaudo ai bordi del fallimento a causa delle lunghe guerre di unificazione condotte: si imposero tasse che non esistevano prima, sui redditi agricoli o sul misero patrimonio dei contadini (tassa di successione) con una pressione fiscale a carico dei più poveri che, a giudizio del Pedio, aumentò del 100% in pochissimi anni.
La stessa autonomia amministrativa della Basilicata venne immediatamente cancellata, con il disegno di centralizzazione del nuovo Stato italiano condotto da Cavour e dalla Destra Storica.
Infine, l’atteggiamento anticlericale dei piemontesi, che si manifestò rapidamente anche in Basilicata (il governo insurrezionale revocò, ad esempio, l’affidamento ai gesuiti del collegio di Potenza) portò ad una ulteriore frattura con una popolazione profondamente cattolica, e molto attenta alle prediche del parroco a messa (ci furono numerosi preti che si schierarono con l’Italia, ma la maggioranza dei parroci di campagna obbediva all’ordine vaticano di sobillare la popolazione contro i Savoia).
La reazione popolare alla delusione seguita alla piemontizzazione della Basilicata, per gli elementi sopra ricordati, fu immediata, ed in qualche modo prefigurò quello che sarebbe stato il successivo brigantaggio: nel giorno del plebiscito per l’unificazione della Basilicata all’Italia, il 21 Ottobre 1860, a Carbone, Castelsaraceno, Calvera, Latronico ed Episcopia scoppiarono tumulti ed agitazioni contadine che col manifesto intento della restaurazione borbonica miravano ad ottenere terre da coltivare. La rivolta fu spenta con una dura repressione: parecchi i morti, molti rinviati a giudizio, 5 condannati alla pena di morte, 25 all’ergastolo ed altri a pene minori. Il plebiscito espresse un si all’Annessione quasi bulgaro, anche se il voto fu largamente truccato. Infatti, il voto non fu segreto: le schede del SI e quelle del NO, prelevate nelle rispettive urne, venivano immediatamente deposte in una urna centrale, talché era possibile risalire all’identità dell’elettore.    

Alle radici dell’esplosione del fenomeno: la prosecuzione sotto altre forme di una lunga lotta di classe pre-sabauda


 Avviso per il conferimento di premi per la cattura di briganti


I tempi erano maturi per il sorgere del brigantaggio. A contribuirvi furono le bande armate dell’ex esercito borbonico sconfitto, allo sbando ed impossibilitate a rientrare nel nuovo esercito italiano, i reparti di irregolari che, verso la fine della guerra contro Garibaldi, furono formati per condurre attività di guerriglia dietro le linee, renitenti alla leva obbligatoria istituita dai piemontesi, e anche criminali comuni, che non riuscivano a ottenere la grazia dal nuovo governo e reinserirsi socialmente. Il Governo legittimista in esilio vide rapidamente nella delusione delle masse contadine del Sud nei confronti dello Stato unitario, nella possibilità di allearsi in chiave anti-piemontese con lo Stato Pontificio, nella presenza di tali bande armate sul territorio, la possibilità di organizzare un tentativo di reazione per riprendere il Regno. 
Questa è in fondo la spiegazione tradizionale del sorgere del brigantaggio. Io però sono di un avviso per alcuni versi diverso. Evidentemente il comportamento del nuovo invasore, la delusione per una unificazione che peggiorava le già critiche condizioni sociali, specie nelle campagne, lo scontro con i sentimenti religiosi della popolazione, il comportamento del Governo legittimista in esilio, ecc. furono senz’altro i fattori scatenanti del brigantaggio. Ma il brigantaggio ha origini più lontane, e può essere come una forma evolutiva del conflitto di classe che agitava il Regno delle Due Sicilie già dall’inizio del XIX secolo. Se non si capisce che il brigantaggio fu il salto di qualità, di una guerra di classe tutta interna alla società meridionale, non si capisce l’entusiasmo con cui il popolo del Sud, inizialmente, salutò l’impresa garibaldina.
Salvatore Lupo ci fa presente che la maggior parte della popolazione era analfabeta e quindi non era in grado di elaborare una consapevolezza personale di italianità. L’entusiasmo dei contadini meridionali per l’avanzata dei Mille non era quindi riferibile ad un attaccamento all’idea di Italia, quanto piuttosto alla speranza che il nuovo Stato avrebbe finalmente portato ad una loro liberazione dalla miseria atavica. La delusione di tale speranza fece sì che la lotta di classe, inizialmente basata sullo schema di una rivoluzione borghese contro la nobiltà, evolvesse, sotto la forma del brigantaggio, come lotta di classe fra proletariato agricolo e borghesia possidente, coinvolgendo il nuovo padrone sabaudo, che proteggeva la classe dei possidenti.
Già l’episodio della Repubblica Partenopea del 1799 fu un chiaro sintomo di avvio di una lotta di classe: i lazzari, un vero e proprio gruppo sociale distinto all’interno delle classi popolari napoletane, combatterono, di fatto in alleanza con la nobiltà, la monarchia borbonica ed il clero, contro i giacobini filofrancesi, espressione dei primi segnali di una nascente borghesia napoletana. Ma la rapida caduta, per mano sanfedista (e con l’appoggio determinante delle classi popolari napoletane) di tale esperimento ebbe effetti sociali molto profondi. Nella sua breve vita, infatti, la Repubblica Partenopea aveva emanato leggi che abolivano i fedecommessi (strumento attraverso cui la nobiltà preservava le sue ricchezze tra le generazioni), le primogeniture, ed istituì i primi provvedimenti di eversione della feudalità.
Tali innovazioni legislative, ottenute nel sia pur brevissimo tempo di vita della Repubblica di Napoli, innescarono di fatto una strisciante lotta di classe nel Regno delle Due Sicilie. La nascente borghesia, spinta dagli ideali della Rivoluzione francese, in più occasioni cercò di sollevarsi contro il governo monarchico. Le riforme che limitavano il feudalesimo, avviate nel 1799, e perfezionate nel 1806, diedero vita ad un ceto agrario borghese destinato ben presto a sostituire gran parte dei vecchi proprietari terrieri nobili. Infatti buona parte dei nobili del Regno erano soliti risiedere stabilmente a Napoli disinteressandosi delle proprietà rurali, perciò si dimostravano disposti a disfarsi delle loro estese terre affittandole o vendendole ai notabili di provincia. Parte di questo ceto borghese (non solo agrario ma anche industriale) che si formò nella prima metà dell'800 divenne ben presto il cardine dei nuovi movimenti liberali: la borghesia meridionale, forte delle posizioni economiche raggiunte, pretendeva riforme e posti di potere nel governo del Regno. In questo modo il ceto medio nato grazie alle politiche economiche borboniche divenne, in seguito alle mancate riforme del 1848, la classe sociale più ostile alla dinastia.
D’altra parte, però i contadini, benché più passivi, per motivi legati ad una scarsa coscienza di classe, spesso, in particolare nei moti autonomistici siciliani de 1820 e del 1848, guidati dalla locale borghesia, si associarono alle rivoluzioni borghesi, nella speranza di migliorare le loro condizioni di vita. Gli stessi contadini siciliani, nelle prime fasi della spedizione dei Mille, si affiancano ai garibaldini per combattere contro le truppe borboniche, esattamente come in Lucania, durante l’insurrezione, la partecipazione popolare fu ampia, benché, ancora una volta, la guida dell’insurrezione anti-borbonica fosse assunta da esponenti della borghesia.
La guerra di unificazione con l’Italia del Nord è l’ultimo, e decisivo, episodio di liberazione della borghesia meridionale dalla monarchia borbonica, che pone fine ad una lotta di classe durata più di 60 anni, nella quale il proletariato agricolo ed industriale del Meridione è stato in parte passivo (come durante i moti reggini del 1847, falliti proprio per la mancata partecipazione popolare), in parte difensore attivo della monarchia borbonica (come nel caso della Repubblica Partenopea), ed in parte alleato con la borghesia (come avvenuto nei moti siciliani e, in numerosi casi, durante la spedizione dei Mille e le insurrezioni pro-italiane).
Tale quadro di lotta di classe cambia radicalmente proprio durante la campagna dei Mille: l’episodio di Bronte del 10 agosto 1860, nel quale Bixio represse la rivolta contadina fucilando 5 persone, segnò la rottura dell’alleanza anti-borbonica fra proletariato agricolo e borghesia possidente: il primo prese coscienza di essere stato usato dalla borghesia per portare a termine la propria rivoluzione contro la nobiltà filo-monarchica, tramite la conquista piemontese, ma che da ciò non avrebbe tratto alcun beneficio. A questo punto, la natura della lotta di classe nell’ex Regno delle Due Sicilie cambiò: da una lotta borghese contro la monarchia, ad una lotta di popolo, soprattutto contadina, contro la borghesia terriera che aveva stretto accordi con i Savoia. Ed è una evoluzione abbastanza fisiologica: la borghesia, nella sua fase rivoluzionaria, spesso coinvolge anche gli strati popolari, ma poi, conquistato il potere economico e politico, si pone in antagonismo con questi.
In tale quadro va collocato il brigantaggio: come una forma legata all’evoluzione della lotta di classe, in cui finalmente il proletariato agricolo si solleva unitariamente contro la borghesia terriera, e per fare ciò deve combattere anche il nuovo padrone sabaudo, di questa borghesia alleato. Il richiamo alla restaurazione borbonica, tipico del messaggio politico associato al brigantaggio è quindi, più che altro, un modo per attrarre la simpatia delle popolazioni, che, deluse dal nuovo Stato unitario, ricordano di “come si stava meglio quando si stava peggio”, e per calamitare aiuti economici e militari dal Governo lealista in esilio. Dice infatti lo storico lucano Tommaso Pedio: “oppressi da una miseria che non consente loro alcuna via di uscita, tormentati dalla fame e dalla disperazione, ascoltano ora i nostalgici dell’antico regime e si lasciano suggestionare da nuove promesse. Dimenticando quella che era stata la loro esistenza prima del 1860, le classi popolari si illudono che una eventuale restaurazione borbonica possa loro arrecare vantaggi e benefici e, soprattutto, rendere possibile l’assegnazione delle terre demaniali che, promessa dai liberali, oggi viene praticamente negata”.
Lo stesso deputato Massari, nella famosa relazione della Commissione Parlamentare d’inchiesta, espresse esattamente questo punto di vista: "Il contadino sa che le sue fatiche non gli fruttavano né benessere né prosperità; sa che il prodotto della terra innaffiata dai suoi sudori non sarà suo. Il brigantaggio diventa, in tal guisa, la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie".
La tesi del brigantaggio come forma di un salto di qualità della lotta di classe nella società meridionale, in direzione di uno scontro fra proletariato agricolo e borghesia, è sostenuta anche da Pedio, che afferma che l'adesione della borghesia lucana alla causa unitaria fosse strumentale agli interessi della stessa. Questo portò, sempre secondo lo storico potentino, ad un conflitto tra la borghesia dei galantuomini liberali e le classi povere, che non poteva che tracimare in uno scontro con il nuovo Stato sabaudo. Egli afferma infatti che “l’entusiasmo con cui i contadini meridionali hanno seguito le forze insurrezionali e accolto le avanguardie garibaldine, si trasforma rapidamente in aperta ostilità non appena il movimento liberale, conseguito il potere nelle province, si oppone alla risoluzione della questione demaniale per non disgustarsi la classe de’ proprietari che sono stati i sostegni veri del movimento che ha portato l’attuale ordine di cose (…) Gli uomini scesi dal Nord per amministrare le nuove province italiane, non concepiscono che gli oppressi possano aspirare a un migliore sistema di vita e, ravvisando nelle richieste dei contadini manifestazioni antiliberali, considerano costoro nemici del nuovo regime e assumono atteggiamenti da conquistatori che irritano i contadini e provocano la loro ribellione contro l’ordine costituito”.

La storia del brigantaggio in Lucania

Carmine Crocco

 
In Basilicata, i primi segnali di brigantaggio si hanno, nell’area del Vulture, con la formazione di bande armate già immediatamente dopo il plebiscito, come si è visto macchiato del sangue di alcune rivolte popolari. La banda più importante, che arrivò al suo culmine ad avere 2.000 unità, fu quella comandata da Carmine Crocco, di Rionero in Vulture. Testimone e vittima di una gravissima ingiustizia quando aveva appena 6 anni (un possidente locale picchiò la madre in cinta e fece incarcerare il padre) che sicuramente lo segnò per tutta la vita, arruolatosi nell’esercito borbonico, disertò dopo aver ucciso un commilitone, per una questione passionale. Incarcerato ed in seguito evaso, si unì ad altri criminali comuni in una banda che operava nella zona di Monticchio. Si arruolò poi nell’esercito garibaldino, con la promessa che avrebbe ricevuto la grazia, ma quando si presentò a Potenza per reclamare la grazia, venne immediatamente fatto arrestare (il che, ancora una volta, testimonia dell’assoluta inaffidabilità delle promesse dei nuovi padroni).  Riuscì ad evadere e a rifugiarsi nei boschi del Vulture, formando una piccola banda di grassatori. Deluso dalla promessa non mantenuta, fu approcciato da membri di comitati filoborbonici che gli diedero l'opportunità di diventare il capo dell'insurrezione legittimista contro lo stato Italiano appena unificato, offrendogli un solido supporto di uomini, soldi e armi.
Con questo supporto, e con un esercito fatto di renitenti alla leva, contadini nullatenenti e delusi, ex militari dell’esercito borbonico, criminali comuni, Crocco formò 43 piccole bande decentrate, in modo da massimizzare l’efficacia di una strategia di guerriglia, e nel periodo di Pasqua del 1861, conquistò la zona del Vulture nel giro di dieci giorni. In ogni territorio conquistato, Crocco dichiarava decaduta l'autorità sabauda, istituiva una giunta provvisoria e ordinava che fossero esposti nuovamente gli stemmi di Francesco II. Persone appartenenti, prevalentemente, alla classe borghese e liberale venivano ricattate, rapite o uccise da Crocco in persona o dai suoi uomini e le loro proprietà venivano depredate. Nella maggior parte dei casi, egli e le sue bande venivano accolti positivamente e supportati dal ceto popolare. Lo stesso governatore della Basilicata, Giacomo Racioppi, dopo l'invasione del comune di Trivigno, affermò: «la plebe si aggiunge ai predoni [...], la colta cittadinanza o fugge, o si nasconde, o muore con le armi alla mano». Anche Del Zio ammise che il brigante «aveva proseliti in ogni comune, era il terrore dei commercianti» e dei «grandi proprietari, o coloni di vaste ed estese masserie, ai quali un semplice biglietto di Crocco per aver denari, vitto ed armi, era più che sufficiente a gettarli nel terrore».
Il 10 aprile i briganti entrarono a Venosa e la saccheggiarono. Il popolo, accorso entusiasta incontro ai briganti, indicò loro le case dei galantuomini. Durante l'occupazione di Venosa, venne assassinato Francesco Saverio Nitti, medico ex carbonaro, nonno dell'omonimo statista, e la sua abitazione fu razziata. Fu poi la volta di Lavello, in cui Crocco fece istituire un tribunale che giudicò 27 liberali e le casse comunali furono svuotate di 7.000 ducati, 6.500 dei quali furono distribuiti al popolo. Dopo Lavello toccò a Melfi (15 aprile), dove Crocco fu accolto trionfalmente. Con l'arrivo di rinforzi piemontesi da Potenza, Bari e Foggia, Crocco fu costretto ad abbandonare Melfi e, con i suoi fedeli, si spostò verso l'avellinese. Il suo arrivo in Irpinia diede uno scossone a diverse popolazioni locali: comuni come Trevico e Vallata insorsero contro i piemontesi e sotto la sua influenza si formarono altre bande nella zona comandate da un suo nuovo luogotenente, il brigante Ciriaco Cerrone. L'espansione di Crocco riuscì anche a valicare i confini pugliesi, grazie anche all'appoggio del suo subalterno Giuseppe "Sparviero" Schiavone di Sant'Agata di Puglia, occupando la stessa Sant'Agata, Bovino e Terra di Bari.
Nell'agosto 1861, però, preoccupato dall’aumento esponenziale di forze militari piemontesi, e dall’incremento della repressione politica, Crocco decise improvvisamente di sciogliere le proprie bande, intenzionato a trattare con il nuovo governo. Il barone piemontese Giulio De Rolland, nominato nuovo governatore della Basilicata al posto del dimissionario Giacomo Racioppi, era disposto a trattare con lui. Il Governo legittimista in esilio, allora, decise di accorrere in aiuto di Crocco, per impedirgli di arrendersi. Il 22 ottobre 1861 per ordine del generale borbonico Tommaso Clary, arrivò il generale catalano Josè Borjes, veterano delle guerre carliste. Il generale comunicò a Crocco la promessa del governo in esilio riguardo ad un imminente rinforzo di soldati. Borjes voleva trasformare la sua banda in un esercito regolare, quindi adottando disciplina e precise tattiche militari; inoltre programmò di assoggettare i centri minori, dar loro nuovi ordinamenti di governo e arruolare nuove reclute per poter conquistare Potenza, ancora un solido presidio sabaudo. Crocco gli diede retta, sebbene non nutrisse alcuna simpatia per il generale sin dall'inizio, temendo che Borjes volesse sottrargli il comando dei propri territori. Nel frattempo giunse da Potenza un nuovo rinforzo, il francese Augustin De Langlais, che si presentò come agente legittimista al servizio dei Borbone. De Langlais, personaggio ambiguo di cui Borjes ebbe a dire nel suo diario «si spaccia come generale e agisce come un imbecille», per certi aspetti, fu il coordinatore principale dei movimenti delle bande.
Spinto quindi a riconquistare, per i Borboni, l’intera Basilicata, Crocco lasciò il suo territorio del Vulture per spingersi verso il Basento, ove riuscì a reclutare nuovi combattenti, e occupò Trivigno. Caddero sotto la sua occupazione altri centri come Calciano, Salandra, Aliano. Il 10 novembre, ottenne una netta vittoria su un gruppo di bersaglieri e guardie nazionali durante la battaglia di Acinello, uno dei più importanti conflitti del brigantaggio postunitario. In tale battaglia, circa 1.000 briganti, agli ordini di Crocco e Borjes, affrontarono 1.200 bersaglieri e guardie nazionali, ben armati ed disciplinati. Lo svolgimento della battaglia mostra come Crocco avesse oramai adottato strategie militari molto avanzate, da vero generale, in grado di utilizzare in modo coordinato sia la fanteria che la cavalleria: la banda di Crocco inviò la prima compagnia per attaccare di fronte i bersaglieri, seguito da un altro contingente per proteggerli. Ninco Nanco, comandante della cavalleria, ricevette l'ordine di colpire il nemico sul fianco. Borjes, a capo del resto della fanteria, marciò in colonna al centro delle due ali per proteggerle in caso di scacco. Dopo un furioso scontro di fucileria, Ninco Nanco e la sua cavalleria attraversarono il fiume e aggredirono sul fianco le guardie nazionali che, dopo un duro combattimento, si diedero alla fuga. Un gruppo di bersaglieri, rimasti soli, indietreggiarono e presero posizione presso il Mulino di Acinello. Vedendoli in una posizione critica, Borjes fece avanzare una sezione della compagnia di riserva per prenderli alle spalle, mentre la prima compagnia lo attaccava di fronte e la seconda a sinistra. I bersaglieri, tentando di difendersi, attaccarono alla baionetta ma il loro sforzo di resistenza si rivelò vano. Morirono 40 militari italiani, ed altri 5 furono catturati come prigionieri, mentre le perdite dell’esercito dei briganti furono del tutto trascurabili. 

Alcuni dei luogotenenti di Crocco: all'estrema sinistra. "Zì Beppe" Caruso, che lo tradirà

 
L'esercito di Crocco giunse nelle vicinanze di Potenza il 16 novembre ma  esplosero le divergenze sotterranee sempre avute con Borjes e di conseguenza la spedizione verso il capoluogo non venne effettuata. L'armata dei briganti riversò verso Pietragalla, un errore fatale, che segnò la sconfitta di Crocco, ma che evidenzia anche il carattere poco avvertito politicamente dello stesso Crocco. Con l'arrivo dell'ennesimo rinforzo militare piemontese, Crocco, infatti, esaurì le risorse per sostenere altre battaglie, perdendo quindi per sempre la possibilità, conquistando Potenza, di far cadere sotto il suo controllo tutta la Basilicata, e ordinò ai suoi uomini la ritirata verso i boschi di Monticchio. Appena tornato, Crocco decise di rompere i rapporti con il generale Borjes, perché era insicuro di vincere e non credeva più alla promessa del governo borbonico di un contingente maggiore. Il generale catalano, sconcertato dal suo cambio di rotta, si recò a Roma con i suoi uomini per fare rapporto al re, ma durante il suo tragitto fu catturato da alcuni regi soldati e fucilato a Tagliacozzo. De Langlais sparì, inspiegabilmente, dalla scena poco dopo. Con la fuoriuscita dei legittimisti stranieri, Crocco si ritrovò isolato, e dovette iniziare a fronteggiare i primi segnali di insubordinazione dei suoi uomini, scoraggiati circa la possibilità della vittoria finale. Nei giorni successivi tutti i paesi insorti e occupati furono riconquistati, ristabilendo l'autorità sabauda e, in base al diritto di rappresaglia, briganti e civili accusati (o sospettati) di manutengolismo furono arrestati o fucilati con esecuzioni sommarie o persino senza processo.
Da quel momento il brigante rionerese, rimasto senza un sostegno militare ed economico, ritornò ad azioni di mero banditismo, compiendo depredazioni, ricatti e sequestri di personalità importanti delle zone, al fine di estorcere migliaia di ducati, ed alla guerriglia per piccole bande autonome che aveva praticato prima di conoscere Borjes. Nel 1863, il generale Fontana organizzò negoziati con i briganti. Crocco, Caruso, Coppa e Ninco Nanco si presentarono di propria volontà. Durante un banchetto, Crocco assicurò di condurre tutti i suoi uomini alla resa e se ne andò. In realtà il capobrigante, ormai diffidente davanti alle promesse del regio governo, non fece più ritorno e l'accordo saltò. Gli scontri tra briganti e truppe unitarie non accennarono a placarsi. Nel marzo 1863 le sue bande (tra cui quelle di Ninco Nanco, Caruso, Caporal Teodoro, Coppa, Sacchetiello e Malacarne), attaccarono un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, uccidendo circa venti di loro, in risposta all'assassinio e all'incendio dei cadaveri di alcuni briganti nei pressi di Rapolla, perpetrato dagli stessi cavalleggeri.
Ma oramai la disciplina interna era diventata sempre più problematica: l’efficacia della repressione militare sabauda era infatti cresciuta, ed il nervosismo, per il cerchio che si stringeva sempre più, aumentava fra gli uomini di Crocco, che spesso dovevano anche affrontare il lutto di parenti ed amici, spesso assolutamente non coinvolti nel supporto ai briganti, che venivano fucilati dai carabinieri, per pura ritorsione. L’autonomia di azione delle diverse bande, resa necessaria per una conduzione efficiente di una campagna di guerriglia, le rendeva sempre più indipendenti, e refrattarie al comando centrale di Crocco.
Inoltre, con l’approvazione della famigerata legge Pica, il 15 agosto 1863, la repressione sabauda ebbe una svolta particolarmente cruenta ed efficace. Venivano istituiti sul territorio delle province definite come "infestate dal brigantaggio" i tribunali militari, con la possibilità, di fatto, di sottoporre a giudizio sommario, senza molte delle garanzie previste dalla legge, chiunque fosse sospettato anche solo di complicità con i briganti. Il nuovo corpo normativo stabiliva che poteva essere qualificato come brigante chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone, in pratica attribuendo la qualifica di brigante sulla base di meri indizi. Veniva concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso. Le pene andavano dall'incarcerazione, ai lavori forzati, alla fucilazione. Coloro che prestavano aiuti e sostegno di qualsiasi genere ai briganti potevano essere puniti con i lavori forzati a tempo o con la detenzione. Veniva punito con la deportazione chiunque si fosse unito, anche momentaneamente, ai gruppi qualificati come bande brigantesche. Veniva, infine, introdotto anche il reato di eccitamento al brigantaggio. Venivano istituiti i Consigli inquisitori, con il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti. L'iscrizione nella lista costituiva di per sé prova d'accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata. La legge, inoltre, aveva effetto retroattivo.
La fine iniziò a manifestarsi quando uno dei più fidi luogotenenti di Crocco, Giuseppe Caruso, soprannominato “Zì Beppe”, per motivi mai chiariti, si arrese al generale Fontana il 14 settembre 1863, offrendosi come collaboratore per catturare Crocco. Grazie alla sua conoscenza esatta dei nascondigli e delle tattiche di Crocco, con il suo aiuto i carabinieri riuscirono ad assestare colpi durissimi a quest’ultimo. A marzo 1864, Crocco sfuggì per miracolo ad una imboscata organizzata dallo stesso Caruso. Meno fortunato fu uno dei suoi principali luogotenenti, Giuseppe Nicola Summa, detto “Ninco Nanco”,  la cui banda venne sterminata dai carabinieri l’8 febbraio 1864, e lui stesso venne catturato con due compagni, il mese successivo, fucilato senza processo, ed il suo cadavere esposto, come monito, nella piazza di Avigliano. A Luglio 1864, Giuseppe Schiavone, detto “Sparviero”, a seguito delle informazioni date dal traditore Caruso, venne catturato e fucilato. Giovanni Fortunato, detto “Coppa”, era già morto, assassinato da un suo sottoposto per questioni passionali. A febbraio 1865 dovette arrendersi anche la banda di Teodoro Gioseffi, soprannominato “Caporal Teodoro”, così come si arrese anche Vito di Gianni, detto “Totaro”. 

Il cadavere di Ninco Nanco, fucilato dai piemontesi


 L’epilogo

Il 25 luglio 1865, l’esercito di Crocco venne sterminato, lungo l’Ofanto, dalle truppe del generale Pallavicini. Rimasto senza forze, Crocco cercò di scappare nello Stato Pontificio, memore del sostegno che il papa aveva dato, in chiave anti-piemontese, alla corona borbonica. Ma Crocco non era un politico molto furbo: i tempi erano cambiati;  il Governo lealista in esilio a Roma non gli aveva perdonato l’abbandono del tentativo di riconquistare la Basilicata; il Papa non voleva creare motivi di ulteriore frizione con i Savoia, ed era soprattutto preoccupato dall’estensione del brigantaggio nel suo stesso territorio, in particolare in Ciociaria. I soldati del Papa lo catturarono a Veroli. Durante la sua detenzione nello stato papale Crocco ebbe anche contatti con Francesco II, esortandolo ad intervenire in suo favore poiché aveva combattuto in suo nome, ma il sovrano, secondo le dichiarazioni del brigante, non volle  intromettersi per non compromettersi con le potenze straniere. Dopo vari passaggi da un carcere all’altro, Crocco fu infine rinchiuso a Potenza. Nel 1873 venne condannato a morte, ma la sentenza venne immediatamente commutata, con decreto regio, in lavori forzati a vita, forse, come sostiene Del Zio, per pressioni politiche francesi. Morì nel carcere di Portoferraio, dopo aver più volte ritrattato il suo passato, arrivando ad elogiare Re Vittorio Emanuele II, e chiesto una grazia che non arrivò mai, nel 1905, all’età di 75 anni. 
Dopo l’arresto di Crocco, rimasero soltanto alcuni focolai di brigantaggio nel materano, costituiti da bande che non facevano parte dell’esercito di Crocco. La banda di Rocco Chirichigno, detto “Coppolone”, fu sconfitta nel febbraio 1865; l’ultima banda operante in Basilicata, quella capeggiata da Eustachio Chita, detto “Chitaridd’”, resisté fino al 1896, in condizioni di estremo isolamento nella zona circostante le gravine di Matera.
La repressione militare sabauda fu selvaggia. Ecco alcuni degli episodi più brutali: A Trivigno, una pattuglia dell'esercito italiano fece un rastrellamento, fucilò alcuni prigionieri ed emanò un bando che prevedeva il perdono a chi si fosse costituito alle autorità. 28 ricercati si presentarono e, nonostante la promessa, furono fucilati senza processo. A Ruvo del Monte, dopo l'assedio di Crocco in cui vennero uccise 17 persone tra possidenti e liberali, un reparto di 1500 soldati ordina la perlustrazione e la fucilazione di un numero imprecisato di ruvesi. Dopo lo sterminio, il comandante Guardi ordinò ai notabili del posto di provvedere ai bisogni della truppa e, davanti al loro rifiuto, comandò il loro arresto con l'accusa di attentato allo stato e manutengolismo. A Lavello, 20 briganti furono fucilati da un contingente di ussari. Altri eccidi si registrarono a Venosa e Barile. Con la legge Pica, in meno di sei mesi, in Basilicata furono incarcerate per sospetto di aderenza ai briganti 2.400 persone; di questi, 525 persone, tra cui 140 donne, finirono al confino.
Non vi è una stima del numero di morti, di villaggi e case distrutte, di persone recluse a vita o inviate al confino nella sola Basilicata. Ma certamente furono numeri da guerra civile. Dopo questa sconfitta, inizierà il crescente distacco economico del Mezzogiorno dal Centro Nord, l’emigrazione, il soggiogamento delle classi popolari meridionali. Nascerà la questione meridionale.  

Bibliografia

-          Francesco Barra, Cronache del Brigantaggio Meridionale (1806-1815), Salerno, S.E.M., 1981
-          Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, Lacaita, 1998
-          Salvatore Lupo, L'unificazione italiana. Mezzogiorno, Rivoluzione, Guerra civile, Donzelli, 2011
-          Gaetano Salvemini, Scritti sulla Questione Meridionale 1896-1955, Torino, 1955
-          Tommaso Pedio, Brigantaggio e questione meridionale, Edizioni Levante, Bari, 1982
-          M. Lacava, Le condizioni igienico-sanitarie della provincia di Basilicata nell'anno 1885, p.82, in Sezione Lucana, Biblioteca Provinciale –Matera
-          G.Bronzini, Vita tradizionale in Basilicata, Montemurro Editori, Matera, 1964.

1 commento:

globilasu ha detto...

Grazie. Mi è utile.

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