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i Quaderni di Bandiera Rossa "La Storia è finita" di Norberto Fragiacomo
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lunedì 30 gennaio 2012

I NEOBORBONI -contro Paolo Barnard in difesa della Fiom-




I NEOBORBONI
-contro Paolo Barnard, in difesa della Fiom-

di Lorenzo Mortara

con una postilla finale di Riccardo Achilli



PREMESSA

Qualche lettore ci ha chiesto delucidazioni sugli scritti di Paolo Barnard. Negli ultimi tempi, questo giornalista, che appartiene più alla categoria dei frustrati, è convinto di aver scoperto chissà cosa dietro la crisi finanziaria, ma siccome non riesce a fare molti proseliti, lancia strali e fulmini, come una vecchia zitella inacidita, contro chiunque non si sintonizzi sulla sua stessa cortezza d’onda.
Cacciato da tutte le televisioni, censurato da tutti i blog contrari alla censura, inviso ai Grillo e ai Santoro, come ai Travaglio e alle Gabanelli e altri spiriti liberi ma non troppo, Barnard – che ha tutta la nostra proletaria comprensione per tanta meschinità – s’è alla fine convinto di essere l’unico con in mano la verità. E certo se i propri avversari sono del calibro della banda dei quattro appena citata, anche Paolo Barnard potrebbe avere ragione. Proprio la caratura media dei quattro, dovrebbe essere sufficiente a Paolo Barnard per aspettare almeno un attimo prima di incoronarsi a Dio disceso in Terra a miracol mostrare. Con noi infatti, Barnard può stare tranquillo, non subirà alcuna censura perché teniamo troppo al buon umore dei lettori...
Tempo fa, per la precisione un lustro fa, nell’Agosto del 2006, gli avevo indirizzato una mia critica al testo Per un mondo migliore, un saggio, questo del Barnard, nel quale c’erano già tutti gli elementi che avrebbero poi dato corpo al Barnard isterico di oggi. La mia critica era un discreto e corposo testo di analisi economica, che già allora riduceva Barnard ai minimi termini, tanto che lui mi rispose dicendomi che non aveva la cultura per apprezzarlo perché ne stava molto al di sotto. E non mi sembrava scherzasse. Anzi, siccome mi ringraziò di averlo citato, pensai che tutto sommato si sarebbe potuto anche continuare di tanto in tanto il nostro carteggio. Così tre anni dopo, nel Dicembre 2009, di fronte alla sua ennesima uscita contro l’Europa e la perdita di sovranità nazionale, ma soprattutto contro il popolo bue, lui evidentemente escluso, che se la prendeva col povero Berlusconi, gli scrissi una lunga lettera per spiegargli l’errore tecnico della sua impostazione. Gli spiegai a farla breve che è l’Unione Europea ad andare a carretta degli Stati nazionali e non il contrario come pensano i Neoborboni come lui che sognano di tornare alla lira, convinti che si risolveranno i problemi, perché attribuiscono a una moneta, cioè a niente, una crisi che sta invece scritta tutta nel DNA del capitalismo. Mi rispose piccato di non scocciarlo e di indirizzare ad altri i miei insulti. Presi atto della sua ormai irreversibile crisi da cinquantenne esaurito e dopo aver palleggiato due secondi nella testa l’idea di mandarlo dove si può immaginare, lasciai perdere. Non so se neoborbone sia un insulto, ma certo è perfettamente calzante per quelli come lui. In ogni caso è tipico degli squilibrati dare titoli a destra e a manca per poi offendersi per quelli che ritornano indietro senza neanche gli interessi. E dagli squilibrati son già io a tenermi alla larga, perché non mi hanno mai divertito.
Conservo ancora la mia lunga risposta a Per un mondo migliore. L’avevo intitolata Dove va il popolo di Seattle. Potrebbe anche essere pubblicata, senza sfigurare troppo. Tuttavia considero quel testo un mio scritto d’apprendistato che tale deve rimanere. Non che adesso mi senta arrivato, anzi, il marxismo è sempre in fieri, ma insomma l’apprendistato vero e proprio lo considero finito. Si impone quindi la necessità di uno scritto nuovo di zecca.
Oggi, la critica a Barnard, dovrebbe partire dal suo scritto più importante, Il più grande crimine. Lo scritto in sé non vale nulla, convinto com’è che la ricchezza delle nazioni parta dall’alto della coniazione della moneta, anziché dal lavoro sociale umano che dà il valore corrispondente alla produzione. Tuttavia, non c’è dubbio che Barnard si sia impegnato in maniera scrupolosa per documentare la sua totale incomprensione della materia, ossia le sue ridicole giornate di studio fallimentare, per cui merita almeno altrettanta cura. Non è che la mia penna sia incapace di smantellare punto per punto le comiche ipotesi di Barnard, sono abbastanza ferrato in materia, tuttavia l’economista vero e proprio del gruppo è il compagno Riccardo Achilli, e alla sua penna tocca eventualmente questo compito. Al limite si potrebbe fare un lavoro a quattro mani, anzi questa è forse la soluzione migliore. In attesa che il compagno Achilli metta lui le mani su Il più grande crimine – sempre che le voglia mettere – essendo il lavoro troppo lungo, questo articolo può forse bastare come antipasto. In effetti, i difetti di Barnard, sono presenti dalla prima all’ultima riga di tutti i suoi scritti. Come militante della Fiom, dunque, prenderò in esame il suo attacco al mio sindacato, esposto nell’articolo Operai siete dei polli. Chi arriverà alla fine della demolizione del Barnard pensiero, avrà tutto sommato in mano uno strumento e una chiave per smantellarsi da solo Il più grande crimine, risparmiando così a me, ma soprattutto al compagno Achilli, uno sforzo in fondo esagerato per il valore che quell’operetta rappresenta.



ALLE RADICI DEL MALE

Il più grande crimine di Paolo Barnard è di non aver mai letto un rigo di Marx, per cui tutta la sua opera – scritta e riscritta come neanche I promessi Sposi senza valere nemmeno la prima bozza del Fermo e Lucia – può benissimo essere lasciata lì dov’è, sul suo sito, per tutti gli amanti di questioni di retroguardia. Invece di perdere ventisette ore a parlare con gli economisti di tutte le scuole, Bernard poteva metterle a miglior profitto leggendo Il Capitale di Karl Marx, e si sarebbe risparmiato una perdita di tempo. Se alla consultazione bibliografica di tutti gli inutili idioti del tempo presente, Barnard avesse preferito il confronto con un solo cervello pensante del passato, avrebbe in un colpo solo gettato un ponte verso il futuro. Così non ha capito niente dall’inizio alla fine dei suoi tempi irrimediabilmente morti.
Come Il più grande crimine, anche le innumerevoli appendici che l’autore ha dedicato all’opera, snocciolano sempre la stessa presunzione di fondo: saperne più degli altri con poco e niente.
Dopo averci detto praticamente che noi operai siamo stupidi come galline, ignoranti totalmente il perché siamo chiusi nelle fabbriche come nelle stie, senza avere il minimo dubbio che forse così terra terra non siamo, e sappiamo bene da dove viene il nostro male come anche quanto sia difficile e complesso combatterlo, questo cervellone ci spiega che la nostra rovina fu decisa a tavolino, negli anni ’60, dalla scuola di Chicago, capitanata da Milton Friedman e dagli economisti neoclassici, che già ai loro albori con Böhm-Bawerk, Rosa Luxemburg considerava fuorusciti dal vuoto mentale della borghesia. Costoro per salvare il mondo, il loro mondo di profittatori, decisero in parole povere che tutto doveva essere trasformato in merce allo stato puro, senza più alcun gadget di protezione, cassa integrazione, servizio pubblico, diritti vari eccetera eccetera. Nacque così il neoliberalismo, che altro non è che il paleocapitalismo di sempre, anche se piace agli stolti vederci chissà quale inversione di rotta.
Fu davvero un crimine contro di noi? Per nulla, o non più di altri normali crimini che la borghesia compie da almeno due secoli. Infatti, quello che Milton Friedman e i suoi seguaci hanno stabilito a tavolino a Chicago, è già scritto dalla notte dei tempi, nel cuore spietato di ogni capitalista senza cuore che si rispetti. Milton Friedman e la scuola di Chicago negli anni ’60 hanno solo messo in bella copia l’anatomia del Capitale. L’attacco ai salari non è stato pianificato dai padroni e dai loro reggicoda da 30 o 70 anni, ma da quando sono nati, per la semplice ragione che solo attaccando i salari i padroni possono difendere il profitto, cioè sé stessi. La scuola di Chicago esprime solo il naturale interesse padronale.
Nel secolo XVIII, tanto per fare un esempio, le leggi inglesi sulle recinzioni di fondi comuni (inclosures) che trasformarono servi della gleba in mendicanti e straccioni, non spennarono meno i padri del moderno proletariato di quanto oggi non li spenni il Fondo Monetario Internazionale della borghesia. Le condizioni cinesi degli operai inglesi di ieri, mostrano come le idee della scuola di Chicago, i capitalisti erano in grado di metterle in pratica ancora prima che questa nascesse. L’uomo, diceva giustamente il nostro grande barbuto, ha da sempre agito prima di pensare...
Non ci sono solo però i padroni ad avere delle idee, cioè degli interessi precisi. Anche noi operai abbiamo i nostri interessi, analoghe idee ma diametralmente opposte alle loro. E anche noi le abbiamo pianificate a tavolino, proprio per difenderci.
Nel 1848, Marx ed Engels, stabilirono che il capitalismo doveva essere rovesciato violentemente con una rivoluzione. Non se lo dissero nemmeno tra loro, di nascosto, ma lo dissero apertamente ai quattro venti. Prima di loro, i socialisti utopisti, il grande Fourier in testa, disegnarono più o meno lo stesso progetto in forma solo più fantasiosa. Se non riuscirono a realizzarlo, come del resto ancora non siamo riusciti a farlo noi marxisti, è perché evidentemente tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Ma non solo per noi, anche per i capitalisti. Per Barnard e altri sognatori, invece, sembra che basti disegnare a tavolino le proprie fantasie perché in quattro e quattr’otto si possano realizzare.
Dunque, la sbrodolata di Barnard si riduce a dirci in ultima analisi che la scuola di Chicago negli anni ’60 ha pianificato, all’ultimo sangue, la lotta di classe contro di noi. Complimenti al nostro genio! Per parte nostra, dopo tanto sapere, ci teniamo la nostra vecchia ignoranza secondo la quale la storia recente è storia di lotte di classe, sia che qualcuno le pianifichi sia che ne faccia a meno.
Pianificare l’annichilimento del movimento operaio, non è sufficiente per riuscire a metterlo in pratica. Infatti, proprio sul finire degli anni ’60, dalla Cina agli Stati Uniti, il proletariato dette una scossa rivoluzionaria che annichilì per un decennio i progetti della Scuola di Chicago e dei padroni che la finanziavano. Se alla fine degli anni ’70, i padroni riuscirono a riprendere in mano le redini della Storia, lo debbono alla scuola di Chicago più o meno come un corridore può attribuire la sconfitta alla presenza di un moscerino sul naso. A sconfiggere il movimento operaio furono le burocrazie sindacali, che temendo che gli operai sorpassassero le compatibilità di sistema, si ingegnarono per fare da freno. In Italia, ad esempio, con la svolta dell’Eur del 1978, svolta con cui il sindacato sacrificava i lavoratori per il bene di lor signori, comincia un’inversione di rotta che porterà alla bancarotta attuale. Analoghi ripieghi si ritrovano in altre parti del mondo. In Inghilterra, abbiamo la sconfitta dei minatori voluta più dalla codardia dei laburisti e di buona parte delle burocrazie sindacali che dalla spietatezza della Lady di ferro. Dietro simili svolte, c’è però un altro fattore, immensamente più importante di tutti gli altri: lo stalinismo. Il freno dell’Urss è stato dieci volte più potente di tutte le burocrazie sindacali. Senza il ruolo controrivoluzionario dell’Unione Sovietica nessuna progetto del Capitale sarebbe potuto andare in porto. Invece a furia di rimandare la rivoluzione, perseguendo i rivoluzionari, non potevano che arrivare i giorni della controrivoluzione. E col crollo dell’Urss, i rapporti di forza si sono ulteriormente spostati a destra, ricacciando indietro di un secolo il movimento operaio. Barnard cerca all’Ovest, negli anni ’60 la causa di una tragedia che comincia ad Est negli anni ’20/’30, e finisce sempre da quelle parti negli anni ’90.
Così come negli anni ’60 il movimento operaio mise a cuccia la scuola di Chigago, così metterà di nuovo la museruola al neoliberalismo non appena tornerà in campo deciso. Per farlo non avrà bisogno di spostare l’asse dei suoi problemi dalla lotta di classe al corollario della sovranità monetaria. L’uno, comprende, eventualmente, l’altra. Qualunque sia la moneta in circolo, infatti, gli operai ne sono sempre schiavi mai padroni. L’unica sovranità di cui gli operai hanno bisogno sotto il regno del capitalismo è quella su sé stessi, sulla determinazione delle loro decisioni. Quando riprenderanno in mano le redini del loro destino, la loro sorte migliorerà, sia che stiano ancora sotto l’Europa dei banchieri, sia che si ritrovino sotto l’Italia dei padroni, e quindi sempre nell’Europa capitalistica tanto quanto prima, e quanto il mondo intero.
Va in ultimo precisato, per amore di completezza, che il ritorno alla lira è una proposta che non porta avanti il solo Barnard. Ma un conto è portarla avanti come fanno tanti compagni, un altro come fa Barnard. L’uscita dall’euro e il ritorno alla lira come misura transitoria sulla via della rivoluzione socialista è un’ipotesi discutibile ma comunque degna di essere presa in considerazione. Barnard non è tra questi compagni. Lui vuole il ritorno alla lira perché la ritiene l’unica cosa necessaria e sufficiente per stampare i suoi sogni di carta. Ed è l’uscita dall’euro come immaginata da questo illusionista che qui si contesta.


PRIMA DELL’UOVO I COCCODÈ DI BARNARD

Dove le tesi di Barnard si smantellano da sole, si vede chiaramente a metà dell’articolo, quando parlando della Fiat e di Marchionne, l’autore se ne esce con una domanda che anche una gallina col suo cervello e parlante si sarebbe probabilmente risparmiata. La domanda da un milione di dollari è questa: «come è permesso oggi a un’azienda come la Fiat, che ha succhiato il sangue dei contribuenti e dei meridionali italiani per 40 anni, ricattare arrogante il nostro Paese?». La domanda è completamente sciocca perché contiene già al suo interno la risposta. Infatti se mezza Italia s’è vista succhiare il sangue per quarant’anni, non sarà forse perché evidentemente la Fiat ricattava il nostro Paese anche ieri? Forse che un uomo si lascia ricattare perché libero e sovrano? Il Paese dei proletari era schiavo e ricattato anche quando era sovrano della “sua” moneta. Marchionne come Romiti e Valletta ricatta l’Italia dei lavoratori perché l’Italia tutta è in mano alla Fiat, cioè al capitale. Tuttalpiù si può solo registrare che il processo di sfruttamento in quarant’anni si è approfondito e aggravato, anche se l’ha fatto nei tempi e nei modi della lotta di classe, cioè della (mancata) risposta che ai soprusi del Capitale ha saputo dare il proletariato. Nella sostanza, comunque, è rimasto quello che è. È lo stesso Barnard infatti ad ammetterlo, solo che non se ne accorge perché la sua presunta soluzione, la sovranità monetaria, lo acceca talmente tanto, da non fargli più vedere le sue stesse contraddizioni. Infatti, come risponde Barnard alla sua domanda intelligente? Con una risposta ancora più intelligente! La Fiat ci ricatterebbe perché a partire dagli anni ’80, avendo l’Italia perso la sovranità monetaria, lo Stato non può più trasformarsi in Babbo Natale e regalare agli italiani il corredo completo dello Stato sociale comprando tutto il loro lavoro, sino a trasformarli nei primi abitanti del Paradiso Terrestre a piena occupazione. Lo Stato sovrano, si badi, avrebbe potuto fare quello non perché, come pagatore di ultima istanza, il debito che uno Stato contrae non è che l’ulteriore credito fatto a sé stesso – cosa che è vera solo in uno Stato completamente autarchico, fuori quindi dal mondo capitalistico (cfr. la postilla finale di Riccardo Achilli) – ma perché secondo Barnard lo Stato avrebbe potuto stampare tutta la moneta che voleva, creando così la ricchezza necessaria solo sfruttando a pieno regime la zecca di Stato. Chi, da bambino, non ha mai chiesto a suo padre di provare a stampare i soldi necessari per comprare il giocattolo del momento? Il più grande crimine del mondo capitalistico è di non essere all’altezza dell’infantilismo di Paolo Barnard.
Ci si domanda, e in effetti anche il Barnard lo fa, se uno Stato sovrano può offrire tutto questo ben di Dio al popolo, perché i governanti d’Italia, quando ancora non eravamo entrati nell’euro, non l’hanno fatto? Lasciamo la risposta a Barnard: «Non l’ha mai fatto (lo Stato sovrano d’Italia..., nda), perché se no il Mercato avrebbe perso». Morale: lo Stato sovrano era succube e quindi schiavo del Capitale sia prima che dopo l’entrata in scena dell’Euro. Del resto, in sé e per sé, perdere la sovranità monetaria non significa niente. Infatti, se uno Stato da solo potesse fare quello che Barnard pensa possa fare, anche una somma di Stati come l’Unione Europea potrebbe farlo, se moltiplicasse per 25 o 27 o più la stessa intenzione progressista d’un suo singolo componente. Se non lo fa non è perché ognuno ha ceduto la sovranità monetaria, bensì proprio perché nessuno dei 25 o 27 o più stati dell’Unione Europea può fare assieme agli altri quello che nessuno di loro ha mai fatto da solo. Qui è il punto di fondo della questione, nella totale incomprensione che Barnard ha dello Stato. Barnard crede a una immaginaria contrapposizione tra Stato e Mercato, nello scontro col secondo del quale, il primo avrebbe perso. Ma lo Stato non ha affatto perso la sfida col mercato, semplicemente sono i proletari che hanno perso la sfida contro lo Stato del Mercato. La partita però non è affatto chiusa. Ribaltare il risultato è sempre possibile purché ci si schieri nel campo giusto, non in difesa dello Stato sovrano ma in quello dei lavoratori sudditi.



STATI SOVRANI PER POPOLI SENZA CORONA

Sia lo stato sovrano, sia quello che ha perduto il trono, è per Paolo Barnard uno stato interclassista. Qui stanno tutti gli errori del Barnard pensiero, nell’ignoranza totale che ha di che cosa sia lo Stato. Lo Stato è un organo di classe, attualmente in mano alla borghesia per la difesa dei suoi interessi legati al profitto. Lo Stato che dà piena occupazione e welfare state come se piovesse, è uno Stato operaio, il presupposto del quale è la distruzione dello Stato capitalistico, con l’esproprio dei capitalisti e la pianificazione economica, ovvero la sostituzione del modo di produzione capitalistico con quello socialista. Cambiare moneta, passando dall’Euro al ritorno della Lira, pensando di poter risolvere in blocco i problemi di disoccupazione lasciando il capitalismo, è come pretendere di passare dall’acqua di mare all’acqua dolce senza fare i conti col sale. Barnard crede che uno Stato borghese possa attuare il programma di uno Stato proletario. Ma lo Stato capitalistico non può essere cambiato dall’interno. Si può, dall’interno dello Stato borghese, regolare lo sfruttamento, aumentandone o diminuendone l’intensità, ma eliminarlo è impossibile. Paolo Barnard prende a modello dei suoi sogni l’Argentina del dopo crack, dimenticando che quel Paese, pur avendo messo una pezza ai disastri del Fondo Monetario Internazionale è ben lontana dall’aver realizzato il suo progetto. Con un salario medio bassissimo, sui 550 dollari, un orario di lavoro che sfiora le dieci ore e una disoccupazione sopra il 7%, l’Argentina ha un proletariato ancora in condizioni miserabili. Inoltre, l’aver mantenuto il capitalismo, è ben lungi dall’aver allontanato lo Stato sovrano argentino dai rischi ciclici collegati a quel modo di produzione. Barnard vede l’Argentina fuori dal baratro, quando è a un passo dal rischio di ripiombarci dentro.
L’Italia, naturalmente, non è l’Argentina. Barnard infatti si aggrappa a questo. Se un Paese sottosviluppato è riuscito a fare quello che ha fatto il Paese di Maradona, figuriamoci cosa può fare il Bel paese che è tra i più sviluppati del mondo. In realtà è l’esatto contrario: quanto più un Paese è integrato nel sistema capitalistico, tanto più ha difficoltà a regolare in maniera meno stretta la cinghia di trasmissione che lo lega al Mercato. L’Italia, quindi, avrebbe già molte più difficoltà dell’Argentina a liberarsi dal morso delle banche. Ma aldilà di questo, illudendosi che le idee possano prescindere dal modo di produzione, Barnard vuole convincerci che, per noi poveri precari disoccupati, basti rivolgere al nostro amato Stato preghiera di piena occupazione e lui la esaudirà, solo che abbia a disposizione la cornucopia straripante di moneta sovrana. Purtroppo, gli esempi fatti da Barnard, mostrano l’impossibilità totale del suo progetto. Almeno per chi abbia nella testa l’analisi marxiana. Per chi, invece, come Barnard ha come base culturale la «SCIENZA ECONOMICA DIMOSTRATA DA ALMENO 40 ANNI DA ALCUNE DELLE PIÙ PRESTIGIOSE SCUOLE DI ECONOMIA DEL MONDO» tutto può essere dimostrato, anche l’impossibile. Ma questo significa solo che la scienza economica moderna, la stupidissima scienza borghese, è la meno scientifica tra tutte le scienze disponibili sul mercato...
Vediamo infatti cosa succederebbe coi piani di Barnard. Il giornalista dice che tra qualche anno le fabbriche di automobili saranno «80% Information Computer Technology e 20% metalmeccanica da far sbrigare a qualche robot». Insomma addio tute blu, l’automazione le renderà superflue. L’idea dell’automazione completa non è da oggi che viene avanzata come spauracchio dai tanti futuristi che si aggirano tra l’intellighenzia piccolo borghese. Ovviamente il processo di automazione sarà un po’ più tortuoso e la manodopera non sparirà tanto facilmente, esattamente come è già sopravvissuta ai tanti suoi funerali prematuri a cui ha dovuto assistere. Indubbiamente però la tendenza delineata da Barnard è vera. Falsa completamente è invece la controtendenza che Barnard propone come rimedio, ovvero rivolgersi a sua Maestà lo Stato sovrano che avrà gran cura di noi con «Piani di Piena Occupazione per tutti voi, pagati dal governo in Italia in settori lavorativi ad alta densità di presenza umana insostituibile». Per dare peso ai suoi piani, Barnard li esalta come il frutto più maturo dei migliori centri universitari americani. Smaschereremo nelle conclusioni questi centri raccolta per asini con la laurea, per ora ricapitolando le cose, stando a Barnard, tra qualche anno, Stato Sovrano permettendo, avremo mezza economia privata con occupazione tendente a zero, e mezza economia pubblica con occupazione tendente alla massimizzazione. Barnard ovviamente non tiene conto del modo di produzione capitalistico e nella fattispecie della composizione organica del capitale che mette in ginocchio i suoi progetti prima ancora che un qualunque Stato borghese, sovrano della sua moneta o meno, possa anche solo prenderli considerazione. In un’economia di mercato, infatti, anche i capitali sono soggetti alla legge della domanda e dell’offerta. Capitali investiti in produzioni con occupazione tendente a zero, daranno profitti tendenti all’infinito, esattamente come capitali investiti in produzioni ad alta densità di manodopera, daranno i più bassi profitti possibili sulla piazza. Questo genererà una tendenza spontanea all’emigrazione dei capitali investiti in produzioni ad alta intensità di manodopera verso quelli investiti in produzioni automatizzate. Ma, diranno i fan di Barnard, questo succederà sul mercato, i capitali investiti dallo Stato in produzioni pubbliche saranno al riparo dalla legge della domanda e dell’offerta. Certo, se lo Stato fosse neutrale, sarebbe certamente così, ma purtroppo lo Stato neutrale non è, e in uno Stato capitalistico, parte dell’economia può essere anche pubblicizzata, ma dipenderà sempre dal mercato, perché sempre al mercato sarà subordinata. Infatti, Barnard, si è chiesto cosa faranno i disoccupati dalla tecnologia, ma non si è chiesto cosa faranno i padroni con gli enormi profitti intascati dalla loro espulsione dalle fabbriche. In un’economia privata pressoché tutta automatizzata, ammesso si riesca a trovare ancora sul mercato qualcuno con la disponibilità economica per comprare le merci, i padroni si troveranno presto tra le mani dieci volte la massa dei profitti che oggi hanno nel portafogli. L’aumento di merci portato dall’automazione intaserà ancora di più il mercato, saturando come non mai tutti i rami produttivi. La sovrapproduzione che già oggi soffoca tutto il sistema, ingolferà ancora di più gli sbocchi agl’investimenti che già oggi non sanno più dove infilarsi. Senza più sbocchi produttivi, i padroni saranno costretti a giocarsi una volta di più in borsa i profitti. La finanziarizzazione dell’economia toccherà vette che faranno apparire quelle di oggi come le cime di colline bassissime. Se oggi, all’apice della crisi, per un dollaro che si aggirava nella produzione ne abbiamo avuti 30 perduti nelle borse, l’automazione completa porterà grosso modo il rapporto a 1/300. Questa massa spropositata di capitale finanziario, non trovando altri sbocchi per valorizzarsi, premerà contro lo Stato come la massa d’acqua di cento tsunami. La richiesta di privatizzazioni selvagge che già oggi ha raggiunto livelli mai visti, sarà decuplicata esattamente come la forza eventuale di chi provasse ad opporsi da dentro lo Stato capitalistico sarebbe ridotta di dieci volte. Perché in linea generale, più si finanziarizza l’economia capitalistica, meno lo Stato borghese è capace di pubblicizzarla. Infatti, per non andare incontro alle loro richieste, lo Stato dei borghesi, dovrebbe rivoltarsi contro i suoi stessi padroni. Ecco perché tenderà ad essere ancora più prono di quanto già non sia di fronte all’avidità dei loro desideri. Perciò, la svendita del demanio pubblico e l’eventuale occupazione pubblica tenderanno ad omogenizzarsi con la composizione organica media del capitale. E un capitale che fa un sacco di soldi nel privato buttando fuori tutta la manodopera dalle fabbriche, non chiederà al suo Stato di venire impiegato in imprese pubbliche ad alto tasso di salariati e quindi a basso livello di profitti, ma chiederà al suo Stato di essere finanziato per progetti pubblici che consentano grosso modo lo stesso tasso di profitto “automatizzato” fatto nel privato, con in più la protezione di Stato dall’eventuale concorrenza rimasta – non più di due o tre monopolisti che faranno cartello. Come si vede i settori ad alta densità di presenza umana insostituibile saranno gli ultimi ad essere presi in considerazione dallo Stato capitalistico. E lo saranno ancora meno, se lo Stato borghese vedrà che gli operai si rivolgeranno a lui dopo essersi lasciati buttare fuori dalle fabbriche senza colpo ferire perché tanto, come suggerisce loro il Barnard, i loro problemi stanno tutti al di fuori delle stie che ha preparato per noi polli da manodopera. Lo Stato borghese è sempre spietato con noi operai, ma la sua spietatezza farebbe impallidire quella dei nazisti se oltre a presentarci sconfitti davanti a lui, lo facessimo anche senza esserci battuti. Un operaio sconfitto ma che si è battuto alla grande, ottiene molto di più da uno Stato borghese che ha perduto la sua sovranità monetaria, di un operaio che si presenti davanti allo stesso Stato che l’ha recuperata senza neanche scendere in campo. Qualche briciola spunta sempre per chi ha conservato la dignità di conquistarsela. Al contrario, anche l’elemosina di una pagnotta è indegna per chi si presenta senza onore al cospetto di un qualunque Stato, fosse anche proletario...



CONCLUSIONE: GALLINA VECCHIA FA BUON BRODO!

La critica al più grande crimine potrebbe anche finire qua. Ce n’è abbastanza per chiudere il libro prima ancora di iniziare a leggerlo. Se ne aggiungo un pezzo non è per infierire, ma perché la conclusione deve ancora mostrare quanto le proposte di Barnard, anche ipotizzando per un momento che siano praticabili, siano così stupide che solo un uomo allo spiedo poteva partorirle. Perché a noi galline alla catena di montaggio con un briciolo di cervello fanno talmente schifo che alla loro realizzazione preferiremo sempre i piani industriali di qualunque bestia, sia questa Marchionne o Milton Friedman o qualche altro sciacallo loro simile.
Mostrate le meraviglie che uno Stato sovrano può fare per noi, Barnard conclude il suo articolo, invitando noi tesserati della Fiom, a pretendere dal gallo del nostro pollaio, il pollo Landini, che si aggiorni. E se il nostro capo si aggiornasse davvero nel senso indicato da Barnard, noi operai avremmo proprio il cervello di gallina se non stracciassimo subito, una ad una, tutte le tessere. Infatti, di fronte alla pressoché completa automazione, uno Stato sovrano che desse ancora piena occupazione agli operai, non sarebbe tanto nostro amico, al contrario sarebbe il più spietato dei nemici che avremmo. Perché uno Stato che mi è davvero amico, uno Stato operaio, di fronte all’automazione completa, se solo vede chi mi azzardo ad avvicinarmi alle sue istituzioni per chiedere ancora occupazione, dovrebbe darmi una pedata nel sedere e urlarmi in faccia «fila via lazzarone! Cosa vuoi ancora lavorare, non vedi che fan già tutto le macchine? Vai a goderti la vita al mare, nei musei o dovunque tu voglia, ma non t’azzardare mai più a venirmi a scocciare con il lavoro, perché la prossima volta che verrai ancora a rompermi le scatole con l’occupazione, ti sbatto in manicomio, dove devono stare tutti i mentecatti che nell’era dell’automazione più completa pretendono ancora di lavorare...».
Barnard se la prende tanto con noi polli da stia alla catena di montaggio, ma non si rende conto di far tanto baccano solo per spostare gli operai dalle stie private a quelle pubbliche. Sempre in gabbia vuol vederci. Liberi dalle sbarre, private o pubbliche, proprio non riesce a immaginarci. Messa così però, noi polli operai veri, non abbiamo bisogno delle sue ali, se è solo per volare così rasoterra. Anche perché, di fronte a una tecnologia che accelera il futuro fino alle ipotesi più rosee della fantascienza, aggiornarsi alla piena occupazione di Stato comunque borghese, vuol dire restare indietro al livello dei neoborboni! Perché un’economia privata tutta automatizzata, sta a un’economia pubblica ad alta intensità di manodopera, come una campagna completamente arata dai trattori, sta al vecchio contadino dietro l’aratro trainato da un bue. Così, un operaio espulso dall’automazione del processo produttivo che non sappia far altro che chiedere al sovrano di Stato, ovvero al solito padrone, di trovargli un altro posto di lavoro, anche se magari in improbabili produzioni ad alta densità di manodopera, è in fondo un operaio che continua a subirla la tecnologia. Se la Fiom deve aggiornarsi, lo deve fare all’opposto affinché gli operai sentano dentro di sé la voglia di essere padroni della produzione, non sempre e comunque schiavi del suo aggiornamento tecnologico. E non è tutto: una lavorazione ad alta densità di manodopera, è una produzione in ritardo rispetto all’evoluzione tecnologica di altri settori produttivi. E il ritardo di oggi verrà colmato dall’innovazione di domani, lasciando l’operaio che si è aggiornato solo fino a Paolo Barnard alla continua ricerca di una piena occupazione che fuggirà dal suo orizzonte come l’Isola non trovata. Per aggiornarsi davvero, la Fiom non ha bisogno di appoggiarsi allo Stato sovrano, basta che si appoggi ai suoi iscritti perché abbassino l’orario di lavoro, riducendolo da 8 a 6 ore al giorno. Ma aggiornare la giornata di lavoro alle 6 ore, vuol dire aggiornare la Fiom al marxismo. Il ritardo della Fiom, è infatti soltanto il ritardo dalla dottrina dei padri del materialismo storico, non certo il ritardo dai neoborboni che inseguono un miraggio medioevale. Solo la lotta dei lavoratori potrà aiutare la Fiom a colmare le sue insufficienze. E questa lotta dovrà essere fatta proprio dentro il recinto delle fabbriche, non fuori come pretende Barnard. Perché tutte le pianificazioni a tavolino come tutte le proposte retrograde dei progressisti universitari, passano per forza dal fulcro per antonomasia del sistema capitalistico: l’operaio che lo mette in moto. Se l’operaio si ferma, anche tutti gli altri progetti saranno costretti a fermarsi. I 21 giorni di sciopero a Melfi lo hanno già dimostrato, e ogni giorno mille altri scioperi gloriosi in tutto il mondo continuano a confermarlo. Forse che allora, nel 2004, i progetti della Scuola di Chicago non erano già all’opera? Eppure dovettero arrendersi alla determinatezza degli operai. E in quei giorni gli operai non contrattarono per un sesto di diritto e nemmeno «sul grado di abolizione dei diritti», perché se ne ripresero, in un colpo solo, una decina. Se avessero continuato ne avrebbero conquistati di nuovi che ancora non aveva nessuno, non solo a Melfi. Si accontentarono però di essere messi al passo con i loro colleghi italiani e non proseguirono oltre la lotta. E non saremo certo noi a contestare questa scelta. A Melfi in quei giorni gli operai han fatto fin che mai. Altre Melfi verranno a spingere ancora più avanti il traguardo raggiunto da quei 21 giorni di sciopero. Quando verranno, conquisteremo quel che ancora ci manca. La contrattazione sul grado di abolizione dei diritti, dimentica infatti Barnard, la fa solo chi non lotta, chi si siede al tavolino già sconfitto prima ancora di aver combattuto. Questo vale oggi come ieri, idipendetemente dal vero o falso potere. Sono le burocrazie sindacali a capitolare prima ancora di aver provato a vincere per loro tornaconto di poltrona. Perché le lotte fanno saltare le poltrone. Ecco perché i burocrati non le vogliono, anche se sanno che a bocce ferme, senza fermare la baracca, la contrattazione può essere solo a perdere, in quanto se si discute al tavolino con le fabbriche in movimento, senza prendere al collo i padroni, i rapporti di forza pendono tutti dalla parte dei capitalisti. E non potrebbe essere altrimenti. Operai e padroni non partono mai sullo stesso piano. Nel momento stesso però in cui l’operaio ferma il giochino, la contrattazione non è più sul grado di abolizione dei diritti, ma sul grado di decurtazione dei profitti dei padroni, cioè sul numero di diritti in più che l’operaio riuscirà a strappare. È sempre stato così e così è anche oggi. E se l’operaio non difenderà palmo a palmo quello che ha conquistato, combattendo per ogni infinitesima parte dei diritti che gli vogliono togliere, non ci sarà cura che tenga. La Fiom, quindi fa bene a fare quello che fa, anche se può apparire agli sciocchi retrograda. Per ora, checché ne dicano i suoi detrattori, è il sindacato più avanzato d’Europa. Deve solo essere più determinata e cercare di allargare a livello internazionale il suo raggio d’azione. Se non lo farà saranno dolori, perché senza marxismo non riuscirà a vincere. Se però deciderà che la soluzione non è il marxismo, è inutile che la cerchi nel Barnard pensiero. Se infatti aggiornarsi significa mettersi al livello di giornalisti presuntuosi ed isterici, è meglio che la Fiom resti così com’è. Non si sarà innalzata al livello del marxismo, ma nemmeno si sarà abbassata al livello medioevale dei neoborboni.
Noi resteremo nelle stie col nostro pollo Landini, così come siamo, operai col cervello di gallina. Per intanto, nell’attesa di farlo anche coi padroni, ci accontentiamo di aver scorciato di qualche cresta la superbia dei neoborboni alla Paolo Barnard.
Viva la Fiom!


Lorenzo Mortara
delegato Fiom-Cgil
Stazione dei Celti
Fine 2011, inizio 2012

(a Luigi che tanto aspettò
con la speranza che non resti deluso)



Nota – per meglio comprendere i problemi legati alla composizione organica del capitale, rimando a Il Capitale, di Karl Marx, Libro III, Sezione terza, Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto; per i dati economici sulla situazione attuale dell’Argentina, si veda quest’articolo, Argentina dieci anni dopo del compagno Andrea Davolo della TMI (FalceMartello); infine per le complicazioni legate all’automazione completa si può consultare Italia in frantumi del sempre documentatissimo Luciano Gallino, pubblicato dalla Laterza.


POSTILLA FINALE
di Riccardo Achilli


I profeti della modern monetary theory spacciano per nuova ciò che in sostanza è la teoria keynesiana della moneta, nella sua versione più radicale.
La teoria originaria di Wray non è altro che la riproposizione con un lessico più moderno delle teorie del deficit spending e dell’espansione monetaria keynesiane, roba che viene studiata al primo anno di economia con i grafici delle curve Is/Lm. Tale modello incontra notevoli limiti: intanto è valido in economia chiusa, perché in economia aperta un incremento di spesa pubblica potrebbe favorire l’espansione produttiva di un altro Paese, e non del tuo, mediante l’incremento delle importazioni, ed un’espansione monetaria potrebbe portare ad una riduzione del tasso di interesse, con conseguente fuga di capitali all’estero.
Venendo alla crescita del debito, questa non è neutrale socialmente, come ben dice De Simone, inoltre non è vero l’assunto di base della MMT, ovvero che in condizioni di sovranità monetaria il debito possa crescere all’infinito. Intanto, perché si arriva ad un punto in cui i creditori non sono più propensi a rinnovare le quote di debito in scadenza, e pretendono il pagamento a liquidazione (è il caso del default, quando cioè il debito sovrano non ha più mercato, non può più essere piazzato) ed anche la monetizzazione di tale debito ha il limite intrinseco dato dall’esplosione dell’inflazione e dalla svalutazione della moneta, che diventa talmente abbondante da essere carta straccia che nessuno vuole (una situazione generatasi durante la crisi di Weimar, ma anche nei Paesi socialisti, in cui tutti erano pieni di soldi che però nessuno voleva, perché non ci si comprava niente, e ci si affannava a procurarsi valuta estera pregiata al mercato nero, perché quella era ancora una moneta avente un valore). Inoltre, l’espansione eccessiva della massa monetaria fa scendere il tasso di interesse fino ad un livello minimo, rispetto al quale tutti gli operatori si autoconvincono che tale livello non potrà che risalire, e di conseguenza nessuno più chiederà prestiti o farà investimenti, con il risultato che la politica monetaria diverrà inefficace e che l’economia andrà in recessione. È la classica situazione di trappola della liquidità analizzata da Keynes. E tutto ciò smentisce l’assunzione di base secondo cui basta aumentare la spesa pubblica, all’occorrenza stampando moneta per coprire l’aumento dell'indebitamento, per raggiungere la felicità.





venerdì 27 gennaio 2012

Il pallone insanguinato della Guinea Equatoriale, di Riccardo Achilli




Come molti appassionati di calcio sapranno, in questi giorni è iniziata la coppa d'Africa, organizzata in Guinea Equatoriale ed in Gabon. Nel calcio professionistico, un torneo internazionale è ben di più di una semplice manifestazione sportiva, considerando l'enorme giro d'affari. Ci sono gli sponsor. Ci sono i diritti televisivi. C'è l'indotto semi-parassitario del giornalismo sportivo di tutto il mondo (qualcuno mi dovrebbe spiegare la funzione degli scribacchini dei giornali sportivi; persino gli addetti ai lavori li disprezzano). Persino gli indumenti degli atleti sono veicoli di marketing per multinazionali che non disdegnano di sfruttare il lavoro minorile negli stessi Paesi del terzo mondo dove contribuiscono generosamente a finanziare eventi sportivi (mi viene in mente il vecchio detto del poeta latino Giovenale, che di metodi per controllare il popolo era un esperto: “duas tantum res populi anxius optat: panem et circenses”; nel caso dei Paesi del terzo mondo che organizzano o partecipano a tornei come questo, spesso il panem non è garantito alla maggioranza della popolazione; tocca accontentarsi dei soli circenses).
Per il Paese organizzatore, poi, specie se in via di sviluppo, l'occasione è irripetibile: si tratta di dimostrare efficienza e capacità organizzativa di un evento molto complesso, quindi di mettere in vetrina il proprio Paese, a beneficio di investitori esteri, ovviamente anche di settori diversi da quello calcistico; si tratta anche di promuovere un Paese, magari poco conosciuto, presso i grandi tour operators, e quindi di attrarre turismo internazionale dopo la fine del torneo (e quindi valuta estera pregiata). Gli stessi tifosi stranieri al seguito della loro squadra, che permangono nel Paese per qualche settimana, diventano, al loro rientro in Patria, ottimi “promoters” dell'immagine turistica del Paese stesso. Non è un caso, infatti, se prima della partita, la televisione abbia fatto passare immagini della Guinea Equatoriale a fini turistici, in cui si vede un Paese di una bellezza malinconica, con le fatiscenti città di architettura coloniale sotto il cielo dell'Africa equatoriale, quel cielo così basso, così cupo di nuvole dense di foschi presagi, e che ti dà sempre l'impressione che si stia per lacerare in un cataclisma spaventoso. Quelle immagini mi ricordavano però la Port-au-Prince dei tempi del dittatore/bokor “Baby Doc” Duvalier e del suo esercito di zombie-Tonton Macoute (per chi non lo sapesse, nella religione voodoo il bokor è uno stregone malvagio, in contrasto con il sacerdote che opera a fin di bene, l'houngan).
Per i vertici politici del Paese organizzatore, specie se non democratici, l'occasione è ancor più ghiotta: solleticando l'istinto nazionalistico del loro popolo, possono guadagnare consenso, che spesso è eroso dalle loro politiche repressive ed economicamente recessive. Inoltre, se subiscono forme di isolamento internazionale per la loro natura repressiva, tramite il ritorno di immagine dato dall'organizzazione di un torneo calcistico, possono uscire da tale isolamento.
L'esempio è quello dei mondiali di Argentina del 1978, studiato dal Dipartimento di Stato Usa, nell'ambito del consolidamento del regime militare argentino sorto in base al piano Condor. L'Argentina fu letteralmente condotta alla vittoria del mondiale, prima con un arbitraggio scandaloso nella partita con il favoritissimo Brasile, nella quale si consentì ai difensori argentini (che per violenza sembravano compadritos della malavita portuale di Buenos Aires) di massacrare gli avversari fino a ridurli all'impotenza, e poi nella famosa partita decisiva contro il Perù. In quella partita, per passare il turno, la squadra argentina aveva bisogno di vincere con almeno tre gol di scarto e quattro reti segnate. Il portiere peruviano, un oriundo argentino di nome Ramòn Quiroga, era una saracinesca: aveva subito soltanto sei goal in cinque partite. Il giorno prima della partita, secondo numerose testimonianze, Henry Kissinger in persona, che assisté alla partita dalla tribuna, si recò presso il ritiro del Perù, in compagnia del dittatore militare argentino, Jorge Videla. Facile immagine cosa dissero ai peruviani. Alla fine, l'Argentina vinse per 6-0, proprio grazie alle ripetute “papere” di Quiroga. Morale della favola: la vittoria ai mondiali ricompattò il popolo argentino attorno alla Giunta militare, consentendole di sopravvivere per altri cinque anni, nel corso dei quali decine di migliaia di innocenti sparirono. Il Governo peruviano, anch'esso frutto del piano Condor, fu ricompensato, l'anno dopo, con la donazione di un'enorme partita di grano argentino. Il Perù non era certo di una squadra così scarsa da perdere per 6-0 contro l'Argentina: il prode Quiroga, qualche anno dopo, ricevette un ingaggio in una prestigiosa squadra spagnola, il Barcellona, come anche il compagno Velazquez; Cubillas è considerato uno dei più forti centrocampisti sudamericani di sempre; Oblitas e Rojas andarono a giocare in Belgio; il capitano, Chumpitaz, è considerato uno dei più forti difensori centrali di tutti i tempi (eppure, il Beckenbauer delle Ande lasciò passare gli attaccanti argentini per ben 6 volte).
Tornando a noi, proprio ieri, mi sono seduto davanti alla televisione per guardare la partita inaugurale della coppa d'Africa, in cui la squadra del Paese organizzatore, la Guinea Equatoriale, giocava contro la Libia (che per l'occasione ha dismesso la tradizionale casacca verde, per non ricordare i tempi di Gheddafi, per una tenuta completamente bianca, simbolo di candore e verginità; che poi molti componenti del CNT la verginità se la siano rifatta è un'altra storia). Dopo circa settanta minuti di calcio spettacolare (la sconsideratezza tattica delle squadre africane assicura un bello spettacolo) non ho potuto fare a meno di notare che la regia televisiva guineaequatoriense, ad ogni interruzione di gioco, dedicava una servile inquadratura per i dignitari politici locali, seduti in tribuna d'onore. Tutta gente vestita con gessati scuri e orologi-pataccati d'oro che nemmeno i capi della banda della Magliana, al matrimonio delle loro figlie, avrebbero avuto il coraggio di esibire, e con facce da bracconieri di elefanti redenti. Comportamento piuttosto sospetto, quello della televisione di Stato. Altro comportamento sospetto: secondo il telecronista, ai calciatori della nazionale ospitante il governo avrebbe promesso un milione di dollari se la partita inaugurale fosse stata vinta, più ulteriori 20.000 dollari per ogni goal segnato. Va bene l'orgoglio nazionale, ho pensato, ma qui gatta ci cova.
Allora ho spento la televisione (tanto l'arbitro aveva già fatto il servigio di prammatica alla squadra di casa, accreditandole un goal su evidente posizione di fuorigioco) e mi sono documentato sulla situazione politica e sociale della Guinea Equatoriale. Ecco il quadro. Il Paese è governato, sin dal 1979, da un dittatore, tale Teodoro Obiang Nguema, che prese il potere rovesciando, con un golpe militare, il precedente dittatore, Francisco Macias Nguema, che poi era lo zio, che governava questo piccolo Paese, di circa 600.000 abitanti, sin dall'indipendenza dalla Spagna, ottenuta nel 1968. Questo signore ha organizzato la più classica delle dittature africane: priva di base ideologica, basata su un'architettura di potere che si identifica con il clan etnico/familiare cui appartiene il leader, cleptocrate, amica dei Paesi occidentali, cui fa ponti d'oro per attrarne investimenti ed aiuti economici, risucchiati quasi interamente dal clan di potere e dai suoi addentellati inseriti in un'amministrazione pubblica totalmente dedita alla corruzione, e ferocemente repressiva nei confronti delle altre etnie/clan non appartenenti al gruppo di potere dominante.
Vorrei essere chiaro su un aspetto. Lungi da me l'idea, tipicamente imperialistica, che si possa “esportare la democrazia” liberale occidentale in Paesi i cui assetti sociali sono pre-capitalistici, e fondamentalmente basati su strutture tribali e claniche (l'etnia dominante del Paese, cui appartiene il suo dittatore, i Fang, è infatti organizzata in 67 clan familiari). Penso anzi che l'esportazione di democrazia occidentale non sia nient'altro che esportazione di imperialismo neo-coloniale, e tale slogan è servito per giustificare le più ingiustificabili guerre per il petrolio ed il business della ricostruzione, ad esempio in Irak ed in Libia. Questi Paesi devono trovare, in autonomia, una strada propria verso l'organizzazione delle proprie società, che tenga conto di assetti sociali tribali e clanici che possono anche rappresentare una ricchezza della loro cultura, più che un residuo da disprezzare dal razzismo degli occidentali. Tuttavia, un conto è cercare di stimolare forme di auto-organizzazione dal basso, come ha meritoriamente fatto il socialismo africano, dalle comunità rurali su base tribale di Julius Nyerere agli esperimenti di autogestione comunitaria messi in piedi dal grande Thomas Sankara (cfr. il mio articolo ). Altro conto è mettere in piedi una dittatura centralizzata, su base clanica, che massacra gli altri clan/etnie che gli si oppongono, nega ogni libertà, depreda letteralmente ogni ricchezza del Paese, e si colloca, in una logica compradora, al puro servizio degli interessi economici imperialistici occidentali.
Il regime guineaequatoriense, dietro ad una apparenza di democrazia (il presidente è eletto a suffragio universale, vengono tollerati, anche se poi ridotti in pratica al silenzio ed all'impossibilità di esercitare qualsiasi attività politica, un paio di partiti di opposizione) nasconde la faccia feroce della repressione. E' un Paese in cui non escono giornali quotidiani, ed in cui i periodici sono sottoposti ad una occhiuta censura. Per legge, esiste un solo canale radiotelevisivo pubblico, ed uno privato, diretto però da Teodorin, il figlio del despota. La polizia può arrestare e trattenere senza mandato, per reati d'opinione, e la tortura, nonostante un legge che la proibisca, emanata per tranquillizzare le coscienze sporche degli occidentali che fanno affari con il regime, è pratica comune. Nel solo 2010, secondo Amnesty International, sono state arrestate 31 persone per motivi politici, 20 delle quali minorenni. Nel 2011, i vertici di uno dei partiti di opposizione “tollerati” sono stati arrestati e torturati...per aver tentato di creare una stazione radiofonica indipendente, nonostante il fatto che avessero regolarmente denunciato le loro intenzioni al Ministero dell'Interno.
Il carcere di Black Beach è considerato fra i peggiori del mondo: in celle umide, vengono messe anche 100 persone insieme (uomini, donne e bambini indistintamente, con il risultato che le donne vengono regolarmente stuprate dagli altri carcerati). I carcerati devono dormire sul pavimento, a turni, perché non c'è spazio per tutti, e fino al 2011 erano le stesse famiglie dei carcerati a dover provvedere al cibo ed ai medicinali. Esiste la pena di morte per crimini politici: nel 2010, quattro uomini sono stati fucilati appena un'ora dopo il loro processo-farsa, per reati di opinione. Vi sono ripetute denunce di uccisioni perpetrate da squadroni della morte filogovernativi. Nel 1998, proprio nel carcere di Black Beach, morì di stenti il principale oppositore politico del Paese, Martin Puye, esponente dell'etnia minoritaria dei Bubi, emarginata dal potere nell'assetto clanico del regime.
Vi sono elementi per pensare che le folle oceaniche che partecipano ai comizi presidenziali siano indotte dalla paura di essere segnalati come potenziali oppositori. D'altra parte, se si considera che il tasso di astensionismo alle elezioni presidenziali, cui regolarmente Nguema si presenta in splendida solitudine, si aggira attorno all'80%, è chiaro che il suo popolo non è che lo ami particolarmente.
Nonostante queste aberrazioni, il regime guineaequatoriense è amico dei Paesi occidentali, soprattutto perché nel 1996 è stato scoperto un enorme giacimento di petrolio dall'americana Mobil. Di conseguenza, nel 2001 Bush ripristinò le relazioni diplomatiche che l'incauto Clinton aveva interrotto, appena un anno prima che si scoprisse il giacimento petrolifero del Paese. Di fatto, la ricchezza petrolifera del Paese è sfruttata esclusivamente da aziende estrattive statunitensi, come Exxon Mobil, Marathon Oil, Amerada Hess e Vanco Energy. L'amicizia con gli USA, cementata dal patrolio, è tale che la Condoleeza Rice, nel 2006, durante una visita di Nguema a Washington, gli disse in pubblico “lei è un nostro buon amico, e le diamo il benvenuto”.
Anche le relazioni con la ex metropoli spagnola sono ottime: non solo due multinazionali spagnole controllano la produzione nazionale di cacao, corrispondendo compensi assolutamente irrisori ai produttori locali, ma il Paese riceve regolari aiuti economici dalla Spagna. Persino il Ministro degli Esteri del Governo Zapatero, a luglio 2009, ha guidato una delegazione commerciale, per esplorare nuove opportunità di business nel Paese. Le relazioni privilegiate, soprattutto in campo petrolifero, con gli USA, sono costate l'unica seria minaccia al potere del dittatore Nguema: nel 2004, un gruppo di mercenari sudafricani, finanziato, per ammissione del loro comandante, dal figlio della Margaret Thatcher, Mark, tentò di rovesciare il regime nguemista, evidentemente per aprire spazi a favore dell'industria petrolifera britannica. Il colpo è fallito, e gli USA sono talmente arrabbiati per questo tentativo di disturbare i loro affari in Guinea Equatoriale, che nel 2005 il governo Bush ha dichiarato Mark Thatcher “persona non gradita” per via del suo coinvolgimento nel tentato golpe.
Vi è da dire che il buon Teodoro Nguema ci ha dato veramente dentro, come si dice, per fare ponti d'oro all'imperialismo occidentale, ribaltando completamente la politica isolazionista ed antioccidentale dello zio (che si faceva mandare gli aiuti dall'Urss e da Cuba). Ad iniziare da un atto di notevole valenza simbolica: non appena preso il potere, ripristinò i cognomi spagnoli delle persone e i toponimi spagnoli dei luoghi geografici, che lo zietto aveva “africanizzato” (a proposito...Nguema, non appena preso il potere, si affrettò a far fucilare l'adorato zietto, che in fondo lo aveva nominato tenente colonnello dell'Esercito, dopo un processo-farsa senza diritto di appello e senza avvocati difensori. Se il buongiorno si vede dal mattino...). E se qualcuno pensa che il ripristino dei nomi spagnoli sia in fondo una cosa secondaria e demagogica, ricorderò uno degli insegnamenti di Sankara: “il colonialismo culturale è molto più insidioso di quello militare. E' meno costoso, più flessibile, più efficace”. Ancora oggi, le lingue ufficiali del Paese sono quelle degli ex padroni coloniali: spagnolo, francese e portoghese. Non le lingue indigene. Persino nella politica monetaria si è dimostrato servile nei confronti dell'imperialismo. Pur non essendo il suo Paese una ex colonia francese, Nguema ha infatti avuto la brillante idea di aderire all'area del franco africano, costringendo quindi il suo Paese ad una politica di cambio fisso con il franco francese (e poi con l'euro) che secondo tutti gli analisti è fortemente penalizzante, in termini di competitività-prezzo, per i Paesi africani aderenti.
Naturalmente tale assetto di potere si riflette in una diffusa cleptocrazia, che si colloca ai vertici di un apparato amministrativo dove la corruzione è un fatto del tutto fisiologico. La potenziale ricchezza del Paese, garantita dal petrolio e della modesta entità demografica, sarebbe enorme: il Pil pro capite è cresciuto del 5.000% fra 1992 e 2006 (la più alta crescita economica del mondo, dopo quella dell'Azerbaidjan), e, attestandosi su un valore di 20.322 dollari, è il più alto di tutto il continente africano. Nonostante ciò, il 60% della popolazione vive con non più di un dollaro al giorno; l'indice di deprivazione “grave” è analogo al valore di Haiti; il dittatore, intervistato nel 2004, afferma però che il suo popolo “vive molto bene”, e che la povertà è dovuta a cittadini “pigri”, che dovrebbero “sudare un po' di più per lavorare”. La speranza di vita alla nascita è di 52 anni, il tasso di mortalità infantile, pari a 124 per mille, è su livelli tipici dei Paesi più poveri del mondo. Circa il 15% dei bambini muore prima d aver compiuto cinque anni di vita. Il 52% della popolazione non ha accesso ad acqua potabile pulita, l'elettricità è assente in vaste zone del Paese, ed è saltuaria nelle città, le condizioni del sistema sanitario sono disastrose, tanto che il sito “Viaggiare Sicuri” parla di carenza anche dei farmaci di base, e sconsiglia di ricoverarsi negli ospedali, suggerendo il rimpatrio immediato, in caso di necessità di ricovero. La malaria, il tifo, l'epatite virale e la meningite sono endemiche. Il tasso di criminalità è molto alto, tanto che si sconsiglia lo spostamento da soli, anche nelle zone urbane, e si sconsiglia di esibire oggetti costosi, o somme di denaro, anche modeste. Le infrastrutture sono in condizioni disastrose. Non esiste rete ferroviaria. La rete stradale è più o meno la stessa che costruirono gli spagnoli, e versa in condizioni di dissesto totale, mentre molte aree sono collegate da semplici piste sterrate che nella stagione delle piogge diventano impraticabili. L'uso di voli interni è considerato praticamente un suicidio, e si consiglia di fare testamento prima. Esiste un solo operatore di cellulare, ovviamente controllato dalla famiglia presidenziale, che ha copertura solo nelle due principali città del Paese. Il 13% della popolazione è analfabeta.
Questo Paese in condizioni disastrose è il quarto più importante produttore di petrolio dell'Africa subsahariana, e come si è visto potrebbe avere un tenore di vita analogo a quello della Spagna o dell'Italia, mentre in realtà è prossimo a quello del Ciad e della Repubblica Democratica del Congo. Dove vanno a finire i pingui proventi petroliferi, oltre che gli ingenti aiuti economici internazionali, se non vanno alla popolazione? Come è ovvio, finiscono nelle tasche dei contrabbandieri di avorio redenti di cui parlavo prima. Un rapporto di Amnesty International, infatti, evidenzia la natura cleptocratica del regime (“Well Oiled”, 2009). Nel 2004, Nguema ha speso quasi 4 milioni di dollari per acquistare due case di lusso a Washington DC, e nel 2008 ha rubato, con i suoi sodali, 26 milioni di dollari da un'impresa petrolifera di proprietà statale, per comprare auto, case e beni di lusso in Spagna. Suo figlio Teodorin ne ha spesi 43,5 per acquistare immobili ed auto di lusso in California ed in Sud Africa, fra 2004 e 2006. In pratica, per le sue spesucce, in soli tre anni Teodorin ha sborsato una somma superiore a quella che il suo Paese ha destinato alle politiche per l'educazione pubblica nel 2005. Milioni di dollari vengono inoltre versati direttamente dalle compagnie petrolifere nelle casse personali di Nguema, per l'affitto di immobili di lusso costruiti con l'esproprio forzoso e senza indennizzo di centinaia di famiglie povere, letteralmente gettate in mezzo ad una strada per fare spazio ai cantieri edili. Il sistema corruttivo, come un albero perverso, scende dal fogliame dei vertici del regime, giù giù per i rami di un'amministrazione pubblica composta essenzialmente da membri del clan di Nguema e dei clan suoi alleati (nel Paese, si viene assunti in base a meri accordi verbali, gestiti da agenzie di collocamento collegate al clan presidenziale, in un contesto in cui il tasso di disoccupazione, alimentato dagli esclusi da tale circuito nepotistico, supera il 30%). Si stima che decine di milioni di dollari siano stati bruciate per ungere le ruote dell'amministrazione pubblica da parte delle compagnie petrolifere statunitensi. D'altra parte, i funzionari pubblici tosano anche la popolazione civile: persino il rilascio di un certificato di residenza dà luogo ad un pagamento in nero. Mentre i contratti petroliferi stipulati con le compagnie estrattive USA sono penalizzanti (si stima che il Paese riceva fra il 15% ed il 40% dei proventi estrattivi, contro una media, per l'Africa sub sahariana, compresa fra il 45% ed il 90%) si ha contezza di milioni di dollari versati dalle compagnie ai vertici politici locali, per l'acquisto di terreni petroliferi di proprietà di dignitari dello Stato, se non dello stesso presidente, o per pagare la scuola privata ai figli, o ancora per l'acquisto di servizi di sicurezza privata direttamente da membri del Governo, o per la partecipazione a joint ventures con imprese locali, ovviamente controllate dal presidente e dal suo clan. Nguema, intervistato da un giornalista britannico nel 2004, viene descritto come un personaggio che parla con voce suadente e bassa, che quando gli si chiede che fine abbiano fatto i soldi del petrolio, risponde, con la più assoluta calma, “segreto di Stato”. A me, con questi modi soporiferi e con questa mano lesta nell'arraffare soldi, sembra un vero democristiano d'antan.
Obama, nonostante abbia criticato i regimi africani cleptocratici durante la sua visita nel Ghana del 2009, non ha risposto alla richiesta di un gruppo di cittadini di congelare i fondi che Nguema ed i suoi sodali detengono in banche statunitensi. Ed a questo regime corrotto e sanguinario, la CAF (ovvero la confederazione calcistica africana), scandalosamente, concede la possibilità di farsi pubblicità, e di sdoganarsi a livello internazionale, tramite l'organizzazione della coppa d'Africa. E' una vergogna, che dimostra una volta in più come il calcio sia strumento piegato a mere esigenze di potere e di affari. Rivolgo un appello: il modo migliore per rovinare questo circuito criminogeno che ruota attorno al calcio è di spegnere la televisione e non guardare le partite. Se non si guardano le partite, gli sponsor non guadagnano, le televisioni non guadagnano, i regimi politici corrotti e brutali non hanno la possibilità di ricomprarsi una immagine “pulita”.

giovedì 26 gennaio 2012

IL TURCO ALLA PREDICA (DELLA SINISTRA) di Norberto Fragiacomo




IL TURCO ALLA PREDICA (DELLA SINISTRA)

di Norberto Fragiacomo



Su invito di alcuni compagni, sono andato a leggermi, domenica scorsa, un’analisi dedicata da Marco Ferrando (leader storico della sinistra trotzkista e del Partito Comunista dei Lavoratori) al c.d. movimento dei forconi, che in questi giorni tiene in ostaggio la più vasta regione italiana.
Una doverosa premessa: stimo Ferrando per la sua coerenza e dirittura morale; mi è capitato, non di rado, di dargli ragione su singoli punti. Nel caso di specie, la ricostruzione “ambientale” era convincente, e le conclusioni, nel loro complesso, abbastanza condivisibili. Sin dalle prime righe ho tuttavia avvertito che c’era nel testo qualcosa che non andava, qualcosa di “sbagliato”: non è stato arduo realizzare che si trattava del lessico. Badate: non sto accusando il segretario del PCL di scrivere “male” o di usare termini impropri; dico semplicemente che il linguaggio del documento mal si adatta al tempo presente. Un esempio – e un dato – chiariranno il concetto:
Forza Nuova sta agendo per fare del movimento dei Forconi la leva di una rivolta popolare reazionaria, in Sicilia, nel Sud, in Italia. Il PCL, nei limiti delle sue forze, lavora per la prospettiva esattamente opposta: entrare nel varco aperto dalla rivolta dei forconi in funzione della rivolta sociale contro la dittatura degli industriali e delle banche; della sua estensione e propagazione a partire dal meridione e dalle isole; dell'egemonia di classe e anticapitalista sulla rivolta popolare; della prospettiva generale del governo dei lavoratori.
Nello scritto, le parole “borghesia” (o “borghese”) e “proletariato” (o “proletario”) ricorrono, rispettivamente, 15 e 5 volte: sulla carta (anzi, sullo… schermo) la contrapposizione è netta; nel mondo reale, invece, le tinte si fondono in un grigiore indistinto. L’operaio che - finché ha un posto di lavoro – prende 1.200 euro al mese è un proletario, siamo d’accordo; ma come definire l’impiegato o il piccolo funzionario che guadagnano, se va bene, 200 o 300 euro in più? Borghesi piccoli piccoli, al pari dell’edicolante e del tabaccaio, o veri e propri proletari? Forse, oggi come oggi, la domanda è meno sensata di quanto apparisse cento o centocinquanta anni fa. Come è abbastanza noto, il proletario è chi possiede, oltre alla propria forza lavoro da vendere al mercato, soltanto una riserva di braccia – cioè la “prole”; nell’Inghilterra di metà ‘800 descritta da Carlo Marx questo tipo umano abbondava, ed era facilmente distinguibile dagli altri (proprietari, capitalisti, funzionari e ceti intellettuali). Pur formalmente libero, il proletario era di fatto uno schiavo, che viveva ai margini della società in condizioni subumane. L’operaio odierno è spesso proprietario dell’appartamento in cui abita, ha l’automobile e diritti (sempre meno) garantiti: la sua situazione è dunque – almeno in apparenza – diversissima da quella del “collega” britannico di un secolo e mezzo fa, e presenta spiccate analogie con quella dell’insegnante o del funzionario laureato, che pure apparterrebbero alla classe “borghese”. Ironia della sorte, il maestro, più colto, ma non raramente più povero del lavoratore manuale, sostiene in genere i partiti “di sinistra”, mentre il proletario doc presta sovente orecchio alle sirene del populismo di destra. Il punto è proprio questo: oltre a rifiutare istintivamente la qualifica di “proletario” (che per lui è sinonimo di morto di fame), l’operaio medio incontra enormi difficoltà ad intendere i ragionamenti del leader/intellettuale socialcomunista, che parla “difficile”, gli addita un modello poco seducente e non si tiene al passo con i tempi. Questo ci riporta all’articolo di Marco Ferrando (ma la patologia, sia chiaro, è diffusissima, e il sottoscritto non ne è affatto immune!) che, datato gennaio 2012, potrebbe benissimo risalire a cent’anni fa: le formule e le modalità espressive non sono cambiate.
In un universo plasmato da pubblicità e marketing la confezione conta più del contenuto: ecco spiegato il relativo successo di movimenti come Forza Nuova, che suscita – in tanti attivisti di sinistra – una frustrazione incredula e rabbiosa. Ben prima che i suoi striscioni facessero capolino nelle manifestazioni siciliane, FN è assurta a bestia nerissima dei movimenti che si battono contro la dittatura della finanza in Europa: al timore che i due messaggi (il nostro e il loro) vengano confusi si somma lo sconcerto per la visibilità acquisita di recente da organizzazioni che non fanno mistero di richiamarsi al fascismo. Reagire scagliando anatemi è abbastanza puerile, e non porta da nessuna parte: meglio sforzarsi di comprendere come mai, in certe occasioni, la voce dei neri sovrasti la nostra. Passeggiando per le strade di Trieste, mi sono imbattuto in alcuni manifesti di Forza Nuova, che ho anche fotografato. Al di sotto di due brevi slogan (contro le banche e per una non meglio precisata "moneta di popolo"), vediamo una mano che, afferrato lo stivale tricolore, lo intinge nella m....; alla scena assistono alcune mosche (appunto!) con la faccia di Monti, Bersani, Berlusconi ed altri. "Tipica violenza fascista!", ha commentato una compagna. Può darsi, ma l’efficacia della comunicazione è indiscutibile: ci vuole poco a capire che la mano "assassina" è quella delle banche (straniere), che senza un deciso cambio di rotta il nostro Paese finirà... in rovina, e che il politicume nostrano tiene il sacco ai grassatori. Vero, falso? Certo siamo di fronte a una semplificazione, che però raggiunge il suo scopo. Inoltre, l'immagine attira lo sguardo, provoca un'amara risata e si imprime nella memoria: chiamiamola pure rozzezza, ma è una rozzezza assai "raffinata", che coglie - e sfrutta - lo spirito dei tempi, immerso nella volgarità e nel turpiloquio (salire su un autobus per credere!).
Con questo, non voglio suggerire di imitare pedissequamente il modello: nella gara di rutti con le destre e il leghismo, per fortuna, la Sinistra perderà sempre. La ragione è evidente: i populisti vanno in cerca di capri espiatori e scorciatoie, noi di soluzioni. Le apparenti analogie derivano, nel caso della Lega Nord, da opportunismo politico; in quello dei movimenti di estrema destra (in ogni caso, più coerenti e meno cialtroni di Bossi, Stracquadanio e compagnia orrenda), dal fatto che il fascismo è figliastro del Socialismo, e ne eredita talune concezioni, che però, all'ombra del drappo nero, si involgariscono. Il nostro compito è, dunque, già in partenza estremamente arduo: non rendiamolo impossibile trasmettendo in cifra.
Adeguarsi al periodo in cui viviamo non equivale ad arrendersi ad esso. Questa volta traggo il mio esempio dall'esperienza personale: appassionato di storia, ho avuto modo di assistere, ultimamente, ad una serie di lezioni/conferenze davvero affascinanti. Più che soffermarsi sui rapporti economici tra le classi, le cause prime e ultime della guerricciola ics ecc., il docente ci raccontava il passato alla maniera antica, descrivendo uomini, battaglie e fatti più o meno memorabili. Desideroso di sapere qualcosa di più su una battaglia navale tra turchi e veneziani cui aveva fatto cenno, ho ripescato, nella mia biblioteca, un volume della Storia popolare d'Italia che amavo consultare da bambino. L'opera ha una particolarità: è stata composta da tale Oscar Pio nel lontano 1870, e difatti termina con la presa di Roma. Di conseguenza, scorre come un romanzo di Ken Follett, e risulta scritta in un italiano piuttosto "esotico". Naturalmente vi ho trovato una vivida descrizione dello scontro avvenuto nel 1717 nel mare Egeo (cui i più scientifici testi successivi non dedicano manco mezza parola), di cui reputo utile riportare qualche frase:
I Veneziani, fatti più arditi per la prosperità della fortuna, mandarono sotto guida del capitano Flangini ventisette vascelli di fila verso i Dardanelli. (…) al mattino seguente vedendosi alcuni legni, che furono creduti la vanguardia del naviglio turco, il valoroso uomo reggendo con lo spirito il corpo languente (…) Ma nello scuotimento del moto perse la vita.
Avrete intuito dove voglia arrivare: se il nostro professore avesse adoperato il linguaggio del libro, ci saremmo sentiti presi in giro, e qualcuno avrebbe pure abbandonato la sala; narrandoci i fatti di ieri secondo l'impostazione di ieri, ma impiegando - non senza una dose di ironia - la lingua di oggi, è riuscito a catturare, e poi a tener desta, l'attenzione dei presenti.
Qualcuno ribatterà che ciò che vale per la Storia - che, in fondo, è una narrazione - non vale per il Marxismo: quest'ultimo è, per definizione, una dottrina scientifica, e le dottrine scientifiche vanno esposte nella maniera e con la terminologia appropriate. Passano i secoli, ma la "massa" resta massa, e il "proletario" proletario.
Questo non è del tutto vero - anzi, per certi aspetti, non lo è affatto. Nell'opera "Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari" (1612), Galileo Galilei, il padre della moderna fisica sperimentale, limita l’oggetto dell'indagine scientifica alle proprietà osservabili empiricamente (cioè suscettibili di misurazione matematica) dei corpi. L'impostazione galileiana è oggi universalmente accettata... ma nessuno scienziato contemporaneo si sognerebbe di chiamare queste proprietà "affezioni", come invece fa Galileo! Al pari dei vestiti, le parole risentono delle mode, vanno e vengono - mentre il concetto resta. Piuttosto che alle scienze (naturali o sociali che siano), le "formule magiche" sono indispensabili alle dottrine esoteriche, tra le quali una posizione di rilievo spetta alle religioni. Cionondimeno, succede (è successo in anni vicini ai nostri) che le raffiche del rinnovamento scuotano anche le cattedrali: mezzo secolo fa, il Concilio Vaticano II rivoluzionò il linguaggio e - in parte - gli atteggiamenti della Chiesa cattolica nei confronti del mondo, pur senza toccare i fondamenti dottrinari della fede. Non è questa la sede per dare un giudizio sugli esiti del concilio; ma, senza dubbio, il passaggio dal latino alle lingue nazionali e la discesa del sacerdote dal pulpito modificarono il rapporto tra il clero ed i fedeli, consentendo - al prezzo, secondo i critici, di una svalutazione del sacro – una proficua osmosi tra istituzione e corpo sociale, e l'ingresso della chiesa nella modernità. Se il Papa può rinunciare ad un Pater noster, non si vede per quale ragione i marxisti non dovrebbero aggiornare il loro vocabolario: il pensionamento dell'invettiva "filisteo" è perfettamente compatibile con lo studio e la diffusione della teoria del plusvalore.
Tralasciando il fatto che a qualche... lefevriano del Marxismo questa proposta non piacerà (d'altra parte, ribatto io, a che serve avere ragione se le famose masse non ci stanno a sentire?), non va dimenticato che, ad avviso di certuni, l'attuale difficoltà a far breccia della "predicazione" marxista deriverebbe dai marchiani errori di analisi commessi, a metà Ottocento, dal pensatore di Treviri, dalle sue previsioni errate ecc. ecc.
Non è casuale che - in un'era in cui persino nelle roccaforti del capitalismo statunitense si finanziano seminari sul pensiero marxiano (testimonianza di Eric Hobsbawm) e molti economisti ortodossi ammettono tra i denti che sulla dinamica delle crisi il vecchio Karl ha ancora parecchio da insegnarci - gli attacchi più violenti vengano dai "rinnegati", cioè da quanti, per compiacere i nuovi padroni, si offrono di fare il lavoro sporco in vece loro. Di solito, la passione (lautamente compensata) è inversamente proporzionale ai contenuti: prima si confeziona la stroncatura, poi si cuciono insieme quattro-cinque frasi avulse dal contesto per "giustificarla". Non mancano neppure eccentrici personaggi che, "scontenti" del Marx tramandatoci dalla Storia, se ne creano uno di comodo, basandosi - a loro dire - su documenti straordinari rinchiusi in qualche museo fuori mano. A tutti costoro non resta che ribattere: onus probandi incumbit ei qui dicit (trad. dal latinorum: chi afferma una cosa ha l'onere di provarla). E' troppo comodo, e pure scorretto, strepitare: Marx ha sbagliato questo, ha sbagliato quello, e poi pretendere che siano a difensori a dimostrare che, al contrario, il nostro aveva ragione.
Provino dunque i critici che su questioni centrali come la progressiva concentrazione del Capitale o l'inevitabilità delle crisi il filosofo di Treviri ha avuto torto: temiamo che non sarà agevole, specie dopo che la caduta dell'URSS e la conseguente rottamazione del welfare occidentale hanno spazzato via le illusioni bernsteiniane sull'ottenibilità dell'uguaglianza per via democratico-parlamentare.
Carlo Marx non ci ha consegnato le tavole della legge, bensì uno strumento d'indagine duttile ed eccezionalmente efficace - un metodo che è fonte di speranza, ma non va retrocesso a dogma. Per quanto ognuno di noi sia sentimentalmente legato ai simboli, alle bandiere e finanche ai sostantivi, il Marxismo - per ridiventare alternativa pratica, non teorica al sistema - deve imparare ad esprimersi in modo comprensibile agli uomini e alle donne del XXI secolo.
Prendiamo ispirazione da Vladimir Lenin, che prima di essere il più grande rivoluzionario del '900, fu traduttore, interprete dell'idea e precettore (in senso letterale) del suo popolo.






martedì 24 gennaio 2012

La pseudo-riforma del mercato del lavoro, di Riccardo Achilli


E’ naturalmente ancora troppo presto per stimare l’impatto che la riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali, presentata ieri in forma molto generica, avrà sul mercato del lavoro e sui lavoratori, perché siamo ancora all’enunciazione di linee-guida generiche, che peraltro potrebbero anche essere modificate, atteso che una volta tanto la CGIL ha avuto il coraggio di annunciare un timido “no” (poi si vedrà nel prosieguo della discussione se la Camusso riuscirà a mantenere la barra dritta, o se cederà). Tuttavia si possono già fare alcune considerazioni di ordine generale. La filosofia di fondo della riforma proposta mira ad offrire un compromesso, che in realtà non è tale. Lo scambio offerto è “maggiore flessibilità in uscita in cambio di un drastico smantellamento delle numerose segmentazioni interne al mercato del lavoro” (ovvero la suddivisione fra un nucleo, sempre più ristretto, di lavoratori “tutelati” da un contratto e tempo indeterminato e varie bolge infernali, sempre meno garantite, di lavoratori precari, dal purgatorio dei contratti a termine giù giù fino ai tormenti satanici dei contratti a progetto, a chiamata, a fischio, a urlo, delle false partite IVA ecc. ecc. – l’ISTAT conteggia qualcosa come 47 diverse tipologie contrattuali, ovvero 47 diverse pene da scontare).
Tale segmentazione di fatto porta ad una riedizione dei famosi modelli “insiders-outsiders” con cui l’economia del lavoro classica analizzava i mercati del lavoro, senza tuttavia eliminarne le conseguenze socialmente negative, ma anzi aggravandole. Infatti, mentre nel modello tradizionale gli insiders sono i lavoratori, che tendono, tramite le loro organizzazioni del lavoro e la negoziazione salariale, a stabilire un salario di esclusione, tale cioè da impedire l’accesso agli outsiders, ovvero i disoccupati, nella nuova versione di tale modello gli insiders sono i lavoratori a tempo indeterminato, mentre vi è una panoplia di figure di outsiders, dai tradizionali disoccupati fino ai lavoratori precari, nelle loro varie definizioni contrattuali. In questa nuova edizione del modello, gli insiders hanno perso potere negoziale, per cui non vi è più un salario di esclusione, mentre lo sbarramento fra lavoratori insiders e lavoratori precari outsiders si basa su fattori che ricadono fondamentalmente sotto il controllo del padronato, come la produttività delle diverse figure professionali, che dipende in larga misura dall’assetto dei cicli produttivi, oppure sono legati esogenamente agli andamenti dei mercati, per cui il maggior o minore grado di volatilità e differenziazione della domanda su un determinato mercato determina il grado di flessibilità richiesto alla forza-lavoro, o ancora riproducono le differenze sociali esistenti, per cui chi ha potuto studiare, pagarsi un master o un corso di specializzazione post-laurea, perché la famiglia lo ha potuto finanziare, acquisisce un profilo professionale “raro”, che può barattare con un posto di lavoro più garantito e remunerato. In estrema sintesi, la barriera di esclusione fra insiders ed outsiders, non essendo più determinata dal salario di sbarramento, stante la perdita di potere negoziale dei lavoratori, è interamente determinata dalle nuove forme con cui si svolge la riproduzione allargata del capitale e la determinazione del saggio di profitto. Inoltre, ad aggravare la situazione, vi è che gli outsiders non sono più una categoria omogenea, che può quindi autorappresentare i propri interessi e convergere unitariamente su questi nella lotta, ma è composta da figure diverse, con problemi diversi, esigenze diverse, spesso poste artificiosamente in conflitto l’una con l’altra (il lavoratore precario ed il disoccupato, e nell’ambito del lavoro precario chi ha un contratto a termine e chi ha un contratto a progetto, chi ha il contratto più lungo e chi ce lo ha più corto, il lavoratore a progetto, che ha una sia pur minima contribuzione previdenziale, ed il lavoratore sotto partita IVA, che è totalmente scoperto, ecc. ecc.) ciò rende oggettivamente più difficile per gli outsiders convergere su una piattaforma di lotta unitaria.
La logica del buon senso dei dati, porterebbe a ritenere che il superamento di tale segmentazione, avvenga verso l’alto, ovvero verso una estensione dei diritti e delle tutele, non verso il basso, ovvero verso una distruzione di qui pochi diritti e tutele che ancora sussistono. Infatti, questa riedizione del modello “insiders-outsiders”comporta:
- salari che non crescono allo stesso ritmo del tasso di inflazione: come è evidente dal grafico sotto riportato, gli indici delle retribuzioni sono sistematicamente più bassi di quelli dei prezzi, e, esprimendo entrambe le serie storiche su base omogenea (1995=100) l’incremento complessivo delle retribuzioni, fra 2007 e 2011, è pari ad 11,3 punti, ed è quindi inferiore all’incremento complessivo dei prezzi sullo stesso periodo (11,5 punti) con la conseguente erosione di potere d’acquisto. Non solo, ma il livello dei salari in Italia è fra i più bassi d’Europa: il reddito netto di una famiglia con due figli, in cui entrambi i coniugi lavorano, nel 2010, è in Italia pari a poco più dell’86% della media dell’Ue-27 ed al 78% della media della Ue-15 (dati Eurostat).

Graf. 1 – andamento dell’indice delle retribuzioni contrattuali e dell’indice dei prezzi per l’intera collettività (base 1995=100)
Fonte: Istat

- l’ampliamento di enormi divari sociali, territoriali, di genere e generazionali sul mercato del lavoro. L’Italia ha un tasso di disoccupazione giovanile più alto della media europea: il tasso di disoccupazione di chi ha meno di 25 anni è infatti pari al 27,8%, a fronte del 21,1% della Ue-27. Lo stesso dicasi per il tasso di disoccupazione femminile, pari al 9,7%, a fronte di una media del 9,6% nella Ue-27. Il tasso di disoccupazione di lungo periodo (cioè il tasso che si riferisce a chi è disoccupato da più di un anno, e quindi ha perso gli skills lavorativi necessari per rientrare sul mercato del lavoro e riottenere una occupazione, tendendo quindi a trasformarsi in disoccupato perenne) è del 4,1%, contro il 3,9% della Ue-27. In un’intera porzione del Paese, che assorbe il 30% della popolazione italiana, ovvero il Mezzogiorno, il tasso di disoccupazione ha un valore che è più che doppio rispetto al dato del Centro-Nord. Tutto ciò ha il suo riscontro in una enorme porzione di popolazione in età da lavoro esclusa dai processi lavorativi: il tasso di attività, che misura la quota di popolazione in età lavorativa che partecipa attivamente al mercato del lavoro, è pari ad appena l’87,6% del dato riferito alla Ue-27;
- l’ampliamento del bacino del precariato dà peraltro luogo ad un sensibile allargamento dell’area dell’economia informale e del sommerso. Il tasso di irregolarità del lavoro rappresenta il 10,3% del totale degli occupati, ed è fra i più alti dell’intera area-Ocse. Esiste una relazione statisticamente significativa, misurabile econometricamente (cfr. R. Achilli, “Sommerso economico, occupazione irregolare, mercato del lavoro e condizioni competitive delle imprese nelle regioni italiane”, in Svimez, Rivista Economica del Mezzogiorno, nr.3/2009) fra tasso di irregolarità del lavoro e ampiezza del bacino di lavoratori precari, giustificata dal fatto che flessibilità “subita” e occupazione irregolare sono in realtà le due facce del medesimo fenomeno di indebolimento del potere negoziale dei lavoratori.
Tutto ciò non fa altro che ridurre il tasso potenziale di accumulazione del capitale, perché il moltiplicarsi di barriere di accesso al nucleo più tutelato del mercato del lavoro, cioè il moltiplicarsi degli outsiders, di fatto riduce l’apporto del capitale variabile al processo di accumulazione. Lo si può vedere, ad esempio, dalla dinamica del numero di ore lavorate. Il numero di ore lavorate annualmente per dipendente, che nel 1980 era pari a 1.653,8, nel 2010 è sceso a 1.603,3, con una riduzione del 3%. Tale fenomeno è il risultato di una combinazione fra la stagnazione della produttività del lavoro ed il mancato aumento del valore assoluto del monte-ore lavorate, indotto dall’ampia platea di soggetti che escono, per disoccupazione o per scoraggiamento, dal mercato del lavoro. La stessa stagnazione della produttività, oltre che dipendere da fattori competitivi (modesto tasso di innovazione tecnologica, dimensione media delle imprese troppo ridotta) è legata anche ad una minore produttività delle figure professionali precarie. Infatti, la riduzione del numero di ore lavorate per addetto, se la si misura non soltanto sui dipendenti, ma su tutti gli occupati (quindi anche rispetto agli indipendenti, che nascondono al loro interno numerose casistiche di precariato) è, fra 1980 e 2010, ancora più forte, passando dal 3% al 4,3%. Il precario ha minori motivazioni a lavorare di più e meglio, e quindi ha una minore produttività. Perché dovrei lavorare di più se non mi garantisci nemmeno il futuro? Anche un bambino lo capirebbe. Inoltre un precario lavora saltuariamente, quindi il suo monte-ore lavorate si riduce rispetto ad un occupato alle dipendenze che lavora continuativamente. Di conseguenza il capitale variabile si riduce, e poiché, come Marx insegna, il processo di riproduzione allargata è basato anche sull’apporto di capitale variabile, la riduzione del monte-ore lavorate per addetto costituisce un ostacolo che rallenta, riduce, il processo di accumulazione capitalistica.
Inoltre, questa nuova edizione del modello insiders-outsiders produce un minore potere negoziale sui salari, e ciò non fa altro che riflettersi sulla domanda per consumi, che si riduce, aumentando la probabilità di crisi cicliche da sovrapproduzione. Infine, l’ampio bacino di lavoro sommerso che, come si è visto, è statisticamente correlato all’ampiezza delle frammentazioni interne al mercato del lavoro, genera evasione fiscale e contributiva, che incide sull’entità del deficit e del debito pubblico.
Nonostante tali evidenze, che dovrebbero suggerire anche ai liberali ed alla borghesia un processo di riforma del mercato del lavoro “verso l’alto”, ovvero aumentando e diffondendo le tutele, le esigenze di breve periodo di un capitalismo finanziarizzato che si disinteressa sempre di più delle caratteristiche dell’economia reale, nonché di una borghesia, alle prese con la forbice di una accresciuta pressione competitiva sul CLUP (e quindi sia sul costo che sulla produttività del lavoro) da parte delle economie BRIC, e di una crisi strutturale della domanda, premono in direzione di un aumento della flessibilità in uscita, quindi di un ulteriore smantellamento delle tutele, che anziché sanare l’attuale modello “insiders-outsiders” trasformandolo in un modello “insiders-insiders”, lo porterà inevitabilmente a divenire un modello “outsiders-outsiders”. Nel breve periodo, ovviamente, l’aumento dell’area della flessibilità consente di ridurre ulteriormente il potere negoziale sui salari, allineando il costo del lavoro alla sua ristagnante produttività, e di reperire micro-nicchie di mercato ancora al riparo dal calo generalizzato della domanda, tramite una personalizzazione estrema del prodotto, che ovviamente richiede altissimi tassi di flessibilità dei cicli produttivi. Nel medio e lungo periodo, però, come si è visto, tutto ciò va a pregiudicare il tasso di accumulazione capitalistica, e quindi la stessa formazione del plusvalore, e provoca anche effetti negativi sulle finanze pubbliche. Una borghesia oramai culturalmente inadatta ad affrontare le contraddizioni strutturali del suo sistema preferisce quindi adottare la massima di Keynes, secondo la quale “nel lungo periodo saremo tutti morti”, cercando soluzioni di breve respiro, e lasciando i danni strutturali che tali soluzioni comportano ai posteri.
Tutte le caratteristiche generali del progetto di riforma presentato ieri alle parti sociali vanno infatti in direzione di una affannosa ricerca di vantaggi di breve periodo. Non è vero che tali soluzioni comporteranno una drastica riduzione delle segmentazioni interne al mercato del lavoro, e quindi non è vero che porteranno al superamento del perverso modello “insiders-outsiders” che si è andato affermando. Il contratto unico di inserimento alla Boeri/Garibaldi, con tre anni di prova in cui è sempre possibile licenziare, in realtà genererà una nuova segmentazione del mercato del lavoro: fra figure professionali che sono rare e particolarmente pregiate, e che accederanno al tempo indeterminato, e figure professionali a minor qualificazione, facilmente sostituibili, che nei tre anni di prova verranno continuamente licenziate, per consentire alle imprese di avere la giusta dose di flessibilità. Il progetto di differenziazione del valore delle lauree in base agli atenei, presentato in parallelo, consentirà quindi di riprodurre sul mercato del lavoro le ingiustizie sociali, fra chi potrà pagarsi lauree di eccellenza, ed accederà al tempo indeterminato, e gli altri, che rimarranno per sempre prigionieri di un circuito di assunzioni con prova estesa a tre anni. Poiché tali figure avranno anche salari bassi, le compensazioni monetarie che le imprese corrisponderanno a seguito del licenziamento saranno anch’esse modeste.
Nella sostanza, il progetto presentato dal Governo Monti mira solamente a semplificare drasticamente la giungla contrattualistica oggi esistente, e che crea anche alle imprese dei problemi, perché finiscono spesso per dover pagare la parcella ad un consulente del lavoro, o ad un’agenzia interinale, che le aiuti a selezionare il modello contrattuale migliore. Ma non mira affatto a superare il dualismo interno al mercato del lavoro, perché con il modello del contratto unico di inserimento vi saranno sempre insiders garantiti, outsiders precari, intrappolati nell’inferno della prova triennale, e disoccupati/inoccupati che rimangono fuori dal mercato. E ancora una volta, tali segmentazioni riprodurranno le differenze sociali esistenti. In questo modo, con il contratto unico non è più nemmeno necessario toccare l’articolo 18, che rimane, però viene svuotato di significato, perché riguarderà soltanto i privilegiati che supereranno lo scoglio dei tre anni di prova. Ed in questo modo i sindacati padronali che fanno della difesa simbolica dell’articolo 18 il loro alibi per approvare qualsiasi cosa saranno soddisfatti. Il contratto unico semplificherà la vita alle imprese, evitando i costi delle consulenze resi necessari dalla complessità della precedente normativa, mantenendo l’attuale stato di fatto, ovvero l’estrema segmentazione interna al bacino degli occupati, che tende a riprodurre la struttura classista della società, e di fronte a ciò, gli incentivi previsti per la trasformazione in tempo indeterminato dei contratti a tempo determinato, oppure per aumentare il costo contributivo dei contratti flessibili oggi esistenti, non hanno alcuna natura sociale, ma rappresentano soltanto strumenti-ponte per agevolare il passaggio dalla vecchia alla nuova normativa.
L’unico modo per dare un minimo di sostenibilità sociale al progetto, ovvero la garanzia di un reddito minimo di disoccupazione, sull’impronta dei precetti della flexsecurity, diviene una presa in giro, in un momento in cui l’obiettivo è quello di tagliare la spesa pubblica, non di creare nuova spesa sociale. Ed infatti, sempre durante la riunione di ieri con le parti sociali, il reddito di disoccupazione è stato postergato “sine die”, ad un imprecisato futuro. Infatti, il Ministro Passera ha dichiarato che le risorse necessarie sarebbero al momento "non individuabili". Da qui l'ipotesi di inserirlo comunque nella riforma prevedendo però "una applicazione dilazionata". Cioè, tradotto dal gergo politico/amministrativo, tale reddito non sarà implementato mai. Mentre invece sarà immediatamente smantellata la CIG straordinaria, che era lo strumento per garantire un reddito minimo su periodi di tempo poliennali in caso di crisi aziendali strutturali. Mentre rimarrà la CIG ordinaria, quella che non supera le 52 settimane, perché tale strumento, più che avere natura assistenziale, ha natura di sostegno alle esigenze di flessibilità delle imprese, che in periodi di calo stagionale della domanda possono collocare i dipendenti in CIG ordinaria, per poi riprenderli a tempo pieno quando la domanda aumenta nuovamente, ancora una volta per stagionalità. Facendo pagare ai dipendenti il costo, in termini di un’indennità di CIG inferiore allo stipendio medio, di tale esigenza aziendale di flessibilità stagionale (è bene ricordare che il trattamento di CIG ordinaria non può superare l’80% della retribuzione globale di fatto, ed ha un massimale fra 908 euro e 1.089 euro, in questo caso solo per retribuzioni superiori a 1.962 euro).
Tutto ciò delinea il quadro di un progetto socialmente regressivo, culturalmente miserrimo, rivela l’incapacità della borghesia di affrontare con lungimiranza le enormi contraddizioni generate dal capitalismo marcescente, rivela l’incapacità dei sindacati di difendere ciò che resta del nostro popolo e del nostro Paese.



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